Itinerari

Castellammare Del Golfo

•Data di fondazione: 17 marzo 1861.

•Toponimia Storica: Al-MadāriğCastrum ad mare; Castrum ad mare de Gulfo; Castello a mare.

Castellammare del Golfo è un comune situato lungo la costa nordoccidentale della Sicilia, a ridosso del Monte Inici: una delle tre cime della catena che include anche Pizzo Stagnone e Pizzo delle Niviere. Il golfo antistante, che prende nome dal paese, si estende da Capo Rama ad est fino a Capo San Vito ad ovest.  A ponente, dove la costa è rocciosa e frastagliata, sono presenti i Faraglioni di Scopello e la Riserva dello Zingaro. Il territorio di Castellamare include, inoltre, la baia di Guidaloca e le Terme Segestane.

Secondo gli storici, Castellammare del Golfo nasce come empórion, cioè come centro di scambi commerciali dell’antica Segesta, situata nell’entroterra ad alcuni chilometri di distanza. Dopo una lunga battaglia tra Segestani e Greci di Selinunte, l’emporio fu conquistato dai Cartaginesi, i quali continuarono a sfruttarlo per finalità commerciali e, soprattutto, per l’esportazione dei cereali coltivati nella zona. Questo sfruttamento ebbe seguito anche sotto i Romani.

Con l’invasione araba dell’Isola, a partire dall’827 d.C., l’emporio venne chiamato Al-Madāriğ, “le scale”, in riferimento ad una scalinata che collegava la montagna al mare o – più probabilmente – ad una scalinata che collega ancora oggi una delle porte dell’antico sistema di fortificazione con il sottostante approdo, denominata “Porta Marina”. Gli Arabi avviarono la costruzione del castello a mare, fondarono piccole borgate nelle aree rurali, quali Fraginesi e Bagni. Inoltre, realizzarono le tonnare e bonificarono a scopo agricolo terreni precedentemente incolti.

Idrisi, geografo arabo della metà del XII secolo, cita Al-Madāriğ come sbocco a mare dell’intero territorio segestano ed in particolare di Calathamet: una piccola rocca posta a 10 km a sud dalla costa, il cui nome deriva dalle acque termali che ancora oggi sgorgano alle sue falde.

Castellammare venne poi conquistata dai Normanni che, dopo essersi impossessati anche del castello a mare, vi apportarono alcune modifiche strutturali, rinominandolo Castrum ad mare de gulfo. Castellammare subì successive conquiste da parte di Svevi, Angioni, Aragonesi, Austriaci e Borboni.

Nonostante le diverse dominazioni, la vocazione marittima di Castellammare si è mantenuta nei secoli, continuando a svolgere la funzione di luogo di stoccaggio e di imbarco delle granaglie mietute nell’hinterland, attestate dalle diverse fosse granarie ritrovate sotto le vie del centro storico.

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Porto di Castellammare

Il castello

Il castello arabo-normannodi impianto poligonale, che fu edificato inizialmente nel X secolo ad opera degli Arabi, sorse su uno spuntone roccioso proteso in mare, collegato al territorio retrostante tramite un ponte levatoio.  Lo stesso subì poi ulteriori modifiche ad opera dei  Normanni, divenendo ancora fortezza degli Svevi, che lo circondarono di mura, e vi eressero delle torri. Espugnato durante la Guerra del Vespro, avvenuta fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, il castello fu modificato dagli Aragonesi, che ne demolirono parte delle fortificazioni ed una delle due torri. Successivamente il forte venne ricostruito e dotato di altre due torri, denominate rispettivamente di San Giorgio della Campana, a fianco delle quali nel 1537 ne sorseuna terza detta il Baluardo.

Più tardi, ma entro il 1845, il castello venne dotato di due cinte murarie e l’originario ponte levatoio fu rimpiazzato da uno fisso in muratura, ancora esistente.

Oggi sono visibili le strutture cinquecentesche su tre elevazioni, costituite dalla base poligonale con muri a scarpa della fortezza, potenziata sul lato settentrionale da una torre cilindrica, al cui interno si trova una singolare scala elicoidale che conduce al secondo piano.

Attualmente il maniero ospita il polo museale “La memoria del Mediterraneo”, suddiviso in tre sezioni: preistorica – che annovera una collezione di fossili e foto di reperti ceramici; archeologica – che conserva ceppi d’ancora in piombo e anfore romane; marinara – composta da attrezzi e strumenti per la navigazione.

Le Fosse Granarie

Nel 2014, durante i lavori per la messa in posa del metanodotto presso corso Garibaldi, nel centro storico del Comune, sono state scoperte delle antiche Fosse Granarie. L’ipotesi più avvalorata è che la loro realizzazione sia databile tra il 1300 e il 1500 e che siano state in uso sino al 1800. Queste cavità, del diametro di 9 m e profonde 11 m, venivano utilizzate per la conservazione del grano, che poteva mantenersi in perfette condizioni per circa tre anni. Nelle fosse, sigillate in modo da evitare qualunque ricambio d’aria, l’ossigeno lasciava il posto all’anidride carbonica che, creando un ambiente sterile, salvaguardava il cereale dall’attacco di parassiti e roditori. Si ipotizza che il numero complessivo delle fosse castellammaresi dovesse superare le trenta unità. Tuttavia, ad oggi, ne sono state ispezionate solo tre. Esse si trovano nel quartiere un tempo detto chianu di lu funnacu, “piano del fondaco”, dall’arabo funduq, con riferimento al luogo di sosta presso il quale trovavano ristoro i mercanti con le loro cavalcature.

Le buche investigate, scavate nella viva roccia ed a poca distanza l’una dall’altra, hanno forma tronco-conica e, in un caso, presentano le pareti impermeabilizzate con mattoni di terracotta per proteggere il contenuto dall’umidità.

I Bagni Segestani

Presso la contrada Ponte Bagni si trovano i Bagni Segestani: un insieme di sorgenti termali, le cui acque sgorgano ad una temperatura di 47°C.

Sono dette anche “Polle del Crimiso” poiché, secondo la tradizione, le loro acque sarebbero scaturite per volere del dio Crimiso, che così avrebbe potuto scaldare la ninfa Egesta sua sposa. Dall’amore dei due, poi, sarebbe nato Aceste, il quale avrebbe fondato la città di Egesta – l’odierna Segesta -, dandole il nome della madre. Le loro rinomate virtù terapeutiche, derivate dalle acque sulfuree e mineralizzate, vengono sfruttate ancora oggi.

Il Castello di Calathamet

Sulla rocca soprastante le sorgenti calde insiste il Castello di Calathamet i cui resti, indagati da un team di archeologi francesi fra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, hanno fatto ipotizzare che nell’area fosse stato edificato dapprima un fortilizio musulmano, databile tra il X e l’XI secolo.

Nonostante ciò, quanto oggi visibile apparterrebbe ad un castello normanno del XII secolo, cinto da mura di fortificazione a protezione di una torre centrale, una chiesa ed una cisterna. Il fortilizio sarebbe stato eretto sulla sommità di un poggio a guardia delle sottostanti sorgenti termali e di tutto il territorio circostante.

I mulini

Nel territorio di Castellammare del Golfo gli Arabi ottimizzarono i sistemi di sfruttamento idrico. Infatti, lungo il corso del fiume Gaggera e del fiume S. Bartolomeo, sono stati segnalati resti di mulini che, attraverso una serie di canali e condutture, sfruttavano la forza dei corsi d’acqua per muovere le macine. Presso il Museo etno-antropologico  “Annalisa Buccellato” sito nel Comune di Castellammare del Golfo, sono esposte delle riproduzioni degli antichi macinatoi a ruota orizzontale.

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Museo Pepoli – ruota di mulino

La tonnara

La Tonnara di Scopello è una delle più antiche della Sicilia, oltre che una delle più suggestive per la sue acque cristalline e per la presenza dei faraglioni che la fronteggiano. Le prime attestazioni del luogo fanno riferimento ad una torretta costruita nel XIII secolo a difesa della costa. Nel 1468 l’area venne acquistata dalla famiglia Sanclemente di Trapani, che ne patrocinò l’ampliamento, destinando il complesso alla pesca. La stessa famiglia commissionò la costruzione del baglio, della casa del custode, dei magazzini, della falegnameria, della terrazza detta “loggia”, adibita alla lavorazione del pescato e dello scagno, il locale presso cui veniva pagato il salario alla ciurma.

La Tonnara, successivamente, passò sotto il controllo dei padri Gesuiti che, oltre ad arricchirla di una piccola chiesa, la utilizzarono come alloggio dei pescatori.

Nel 1874, la Tonnara subì un ulteriore cambiamento per opera del nuovo proprietario, l’imprenditore palermitano Ignazio Florio. Infine, nel 1890 è svolta l’ultima mattanza e da allora la Tonnara è in disuso e viene adibita a diversi scopi culturali.

Patrimonio immateriale

Il tonno, le sarde e la cassatella

Da annoverare tra i prodotti più rinomati di Castellammare vi è sicuramente il tonno, che ha contribuito ad incrementare l’economia del paese e dal quale, pressando ed essiccando sotto sale le uova, si ottiene la bottarga, termine derivato dall’arabo buṭāriḫ.

Un piatto tipico è costituito dalle sarde a beccafico: una pietanza che deriva da una ricetta più antica, risalente all’800, consumata dagli aristocratici siciliani. Tale ricetta venne ulteriormente modificata per permetterne il consumo anche alle classi meno abbienti, sostituendo la carne del ricercato uccellino (il beccafico) con le più economiche sarde, che – allora come oggi – vengono farcite con mollica di pane, fette di arancia e di limone, pinoli, foglie di alloro, olio e sale. Castellammare del Golfo è inoltre famosa per le cassatelle: piatto in origine preparato in occasione del carnevale, farcito con ricotta di pecora e pezzetti di cioccolato, fritto e cosparso di zucchero a velo. La forma, che richiama quella di un raviolo, e gli ingredienti usati per il confezionamento (ad eccezione del cioccolato) parrebbero rimandare alla tradizione culinaria arabo-sicula.

La mattanza, le cialome e la tonnara

La mattanza è un tipo di pesca tradizionale, oggi quasi del tutto abbandonata, sviluppata all’interno delle tonnare. Quest’ultimo termine indica tanto l’insieme di reti adibite alla caccia del tonno, quanto il luogo in cui questa viene attuata.

La tecnica, che affonda le sue radici nella preistoria, veniva praticata per catturare i tonni rossi e pare sia giunta in Sicilia con gli Arabi, popolo a cui si attribuiscono i tipici canti marinari – le cialome – e alcuni dei termini marinareschi, ancora oggi in uso, come rais musciara, che indicano rispettivamente il capo della tonnara e la barca dei tonnaroti.

Anticamente venivano utilizzate diverse tecniche di pesca al tonno: nella tonnara a sciabica,le imbarcazioni trascinavano le reti piene di tonni verso la costa; mentre nella tonnara fissa le reti venivano posizionate in un tratto di mare in attesa del passaggio dei pesci; infine nella tonnara di corsa, le reti venivano disposte a mo’ di camere nella zona di passaggio dei tonni. Le reti di quest’ultimo tipo potevano essere posizionate sia in mare aperto che vicino alla costa. Compito esclusivo del Rais era quello di identificare la zona più adatta in cui le correnti favorissero la pesca più abbondante. Le reti, chiamate isola, venivano calate a inizio maggio, cioè nel periodo in cui iniziava la migrazione dei tonni.

Ad oggi le tecniche più utilizzate sono quelle della tonnara di corsa e della tonnara volante, le motivazioni sono da addurre all’impoverimento dei mari, causato dall’inquinamento e da un’intensiva pesca industriale.

Come già anticipato, oltre che come sinonimo di stabilimento in cui i pesci vengono trasformati e conservati, il termine tonnara è impiegato anche per indicare il luogo di pesca dei tonni. Si distinguono le tonnare di andata e le tonnare di ritorno. Le prime, situate lungo la costa settentrionale della Sicilia – Favignana, Bonagia, Scopello, Castellammare, San Vito – prevedevano la pesca del tonno atlantico, anche detto “tonno di andata”, tra aprile e giugno. Le seconde, localizzate lungo la costa sud-orientale e meridionale dell’Isola – Capo Passero, Sciacca, Capo Granitola -, prevedevano la pesca del tonno diretto verso l’Atlantico, il cosiddetto  “tonno di ritorno”, ormai stremato dal lungo viaggio e dalla fecondazione e, pertanto, smagrito.

Come arrivare

In bus
I collegamenti tra le principali località siciliane ed il paese di Castellammare sono varie. In particolare, si segnalano le autolinee Palermo – Castellammare e Trapani – Castellammare. È possibile consultare il sito www.castellammare.tp.it

in auto
Procedere sull’autostrada A29 da Palermo a Trapani, uscita svincolo Castellammare e continuare su SS731 seguendo le indicazioni stradali.

In aereo
Gli aeroporti più vicini sono: l’aeroporto “Falcone-Borsellino” per Palermo e l’aeroporto di Trapani-Birgi “Vincenzo Florio” per Trapani.

San Vito

  • Data di fondazione: Il Comune nasce alla fine del Settecento, ma vi sono tracce umane risalenti all’epoca paleolitica, mesolitica e neolitica nelle numerose cavità naturali presenti nel circondario.

San Vito Lo Capo è un comune italiano che si trova ad ovest di Castellammare del Golfo ed è delimitato a ponente e a levante rispettivamente dal Golfo di Macari e dalla Riserva dello Zingaro. Quest’ultima è caratterizzata da tratti di falesie a strapiombo e da una ricca flora, che conta una presenza variegata di ecosistemi mediterranei.

La nascita del paese moderno di San Vito Lo Capo è attesta al termine dell’700 e sembrerebbe legata alle vicende del santo eponimo Vito. Secondo la tradizione, infatti, il giovane Vito era stato convertito al Cristianesimo dalla nutrice Crescenzia e dall’istitutore Modesto, contro la volontà del padre. Per evitare le persecuzioni contro i cristiani messe in atto dall’imperatore Diocleziano all’inizio del IV sec. d.C., Vito decise di abbandonare via mare la natia Mazara in compagnia dei due correligionari.

Approdato nei pressi di Capo Egitarso, nel territorio di Erice, iniziò a diffondere la parola di Dio nel vicino centro abitato posto sulla rupe di Conturrana (tradizionalmente collocata non lontano dal moderno paese di S. Vito Lo Capo). Qui la loro opera di evangelizzazione non venne bene accolta e vennero cacciati. A seguito della loro espulsione, il villaggio, colpito da una calamità naturale, fu travolto da una frana e scomparve insieme ad alcuni dei suoi abitanti.

Si narra che Vito, dopo aver compiuto numerosi miracoli, nel 303 d.C. subì il martirio insieme ai suoi due precettori. La fama di santo ausiliatore portò gli abitanti del luogo del suo primo approdo ad eleggerlo patrono ed in suo onore venne edificata una cappella sui resti di una fortezza probabilmente saracena. Tuttavia, la crescente devozione nei riguardi del martire e la conseguente popolarità acquisita dal santuario alla fine del XV secolo spinsero i locali ad ingrandire il luogo di culto e a proteggerlo dalle razzie, costruendovi una fortificazione. Intorno ad essa, nel XVIII secolo sorse il paese moderno, divenuto Comune solo il 17 agosto del 1952.

Patrimonio materiale

La tonnara di San Vito

La Tonnara di San Vito, detta “Tonnara del Secco”, è situata lungo la costa alle falde del Monte Monaco, subito ad est del paese moderno. Oggi la struttura è in disuso, ma in passato ha rappresentato uno degli stabilimenti più importanti e antichi della Sicilia.

Vicino alla struttura si trovano i resti di una cetaria, cioè di un antico impianto di trasformazione del pescato risalente al III sec. a.C. Di esso si conservano soltanto alcune vasche rettangolari, poco profonde e foderate in cocciopesto, materiale utilizzato nell’Antichità come rivestimento impermeabile. Al loro interno, le carni di tonni e sgombri venivano essiccate sotto sale, mentre le interiora venivano fatte macerare al sole per ottenere una salsa rinomata sulle tavole dei Romani e da questi chiamata garum.

La Nave dei Corani

Nelle acque antistanti la Tonnara del Secco giace sul fondo marino alla profondità di 50 m ca. il relitto moderno del Kent. Esso appartiene ad una nave da carico cipriota che, partita da Siracusa e diretta in Nigeria, è naufragata nel 1978 in seguito allo scoppio di un devastante incendio a bordo, alimentato dal carico costituito da olio, rame e centinaia di copie del Corano. Per la presenza a bordo di questi libri il relitto è anche noto come “Nave dei Corani”.

È possibile visitare quanto resta dell’imbarcazione con due immersioni, una dedicata alla parte poppiera e l’altra dedicata alla parte prodiera. Per immergersi è richiesta l’esperienza e il possesso di brevetti adeguati.

La Riserva Naturale dello Zingaro

La Riserva Naturale dello Zingaro è un’area naturale protetta fondata nel 1981, che si estende per 7 Km ca. lungo l’estremità nordoccidentale del Golfo di Castellammare, fra Scopello e San Vito Lo Capo. È stata la prima riserva ad essere istituita nella regione siciliana per volontà dell’Azienda Foreste Demaniali dopo le proteste portate avanti nel 1976, insieme a diverse associazioni ambientaliste, per evitare che l’area venisse deturpata dalla costruzione della strada litoranea Scopello-San Vito Lo Capo.

Oggi, al suo interno, oltre al suggestivo paesaggio naturale creato dai colori e dagli odori della flora, dalle diverse sfumature blu del mare e dalle meravigliose spiagge, si possono visitare numerose calette, nonché musei dedicati al territorio e alla sua storia.  Tra questi vi è il Museo delle attività Marinare, collocato in un antico marfaraggio, ovvero una struttura usata come riparo per gli arnesi da pesca e come abitazione per i pescatori. Il museo ospita una collezione di attrezzi per la cattura dei pesci e immagini che ritraggono momenti della mattanza.

All’interno della Riserva si trova il Museo della civiltà Contadina, nel quale sono esposti utensili impiegati per la lavorazione del grano, la cui produzione è stata e continua ad essere centrale per l’economia della Trinacria. Sono esposti ancora dei bummuli, tipici contenitori siciliani realizzati in terracotta ed usati dai contadini per trasportare e mantenere fresca l’acqua o il vino durante la stagione calda. Malandrino, “furbo” in siciliano, è un particolare tipo di bummolo, probabilmente introdotto dagli Arabi sull’isola e qui molto apprezzato per il suo funzionamento bizzarro. Infatti, il contenitore viene riempito capovolto attraverso il foro presente sul fondo. Da qui, per mezzo di una lunga cannula, il liquido finisce nella pancia del vaso, dal cui beccuccio fuoriesce solo se inclinato.

Patrimonio immateriale

Il cous-cous e il pani cunzatu

La tradizione gastronomica di San Vito si caratterizza, principalmente, per il cous cous, piatto tipico del Nord Africa che fu importato in Sicilia dagli Arabi.

La pietanza viene preparata in un recipiente di terracotta, largo e basso, denominato mafaradda: al suo interno, la semola viene lavorata a mano con l’aiuto dell’acqua, fino ad ottenere dei grumi rotondi. Una volta pronta, viene condita con olio, sale, cipolla, pepe e cannella. Si possono anche aggiungere le mandorle tritate per dare più sapore. Successivamente, la semola viene cotta per circa 2 ore all’interno della couscoussiera: una pentola di terracotta cilindrica sul cui bordo si innesta un contenitore anch’esso in terracotta dotato di fondo convesso e bucherellato. Nella parte inferiore del tegame vengono messi a bollire i pesci in un brodo di verdure, il cui vapore cuoce la semola posta nella parte superiore. Una volta pronto, il cous cous viene nuovamente riposto nella mafaradda e qui condito con la zuppa di pesce. La pietanza, pronta, va servita al tavolo nel lemmu: un contenitore di forma tronco-conica in cui la semola va insaporita col brodo di pesce.

A differenza di quella siciliana, la ricetta originale del cous cous maghrebino viene preparata con patate, verdure, carne di pollo o di agnello. Tuttavia, in Libia lo si accompagna con pesce e calamari mentre in Marocco, oltre che con la carne, viene servito anche come dessert con mandorle, cannella e zucchero.

Il pani cunzatu, pane condito, è un altro piatto tipico locale, caratteristico della tradizione contadina. Il suo nome sembrerebbe derivare dal termine arabo ḫubz, “pane”. La ricetta originale prevede una base fatta da morbido pane (preparato con farina, lievito, acqua, olio e sale), sul quale vengono aggiunti condimenti semplici e genuini come l’olio d’oliva, il sale ed il formaggio, il tutto profumato da spezie locali come l’origano. In anni recenti, poi, la ricetta tradizionale è stata rivisitata aggiungendo, o anche sostituendo, agli ingredienti originali verdure, carni o insaccati.

Il Cous cous Festival

Il Cous Cous Festival” si svolge ogni anno nel mese di settembre e mira a promuovere il piatto tipico che ormai da secoli costituisce un vero trait d’union fra il Maghreb e la Sicilia. Il festival si caratterizza per un impianto non solo gastronomico, ma anche culturale e musicale. È possibile assistere alla preparazione del cous cous e degustare le diverse ricette, da quella sanvitese con il pesce a quelle africane con pollo e carni miste. In occasione del Festival, inoltre, si svolgono eventi musicali.

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Custonaci

  • Data di fondazione: 25 Dicembre 1948.
  • Toponimia Storica: Secondo alcune fonti, il toponimo deriverebbe dal greco kastánaki, “piccola castagna”, o dalla forma abbreviata del diminutivo dell’antroponimo greco Kostantînos. Secondo altre, invece, la desinenza del termine aci o akis, di derivazione sicana o greca, farebbe riferimento ad un oggetto appuntito e la radice del nome si riferirebbe a Kustuni, ovvero “roccione ripido”.

Il comune di Custonaci è situato su una collina all’estremità orientale del golfo di Bonagia e si affaccia a nord-ovest sul Mar Tirreno. Il suo territorio, di cui una parte si trova nella Riserva Naturale Orientata del Monte Cofano, si distingue per la ricca flora e fauna. Custonaci è “Terra internazionale dei marmi”, infatti nella sua area è presente il secondo bacino marmifero d’Europa, da cui vengono estratte due diverse qualità di roccia: il Perlato ed il Perlatino di Sicilia. Queste, caratterizzate da un colore bianco-avorio, si differenziano per la presenza di perle – resti fossili inglobati nel calcare – più o meno visibili ad occhio nudo sulla superficie.

La presenza dell’uomo nel territorio di Custonaci è attestata già a partire dal Paleolitico: in diverse grotte del territorio, quali le grotteMangiapane, la grotta Rumena murata e la grotta Buffa, sono stati ritrovati utensili e manufatti litici che ne testimoniano il passaggio.

Nel 1241 Re Federico II di Svevia, per favorire il popolamento del territorio, concesse a Monte S. Giuliano – l’odierna Erice – tredici Casalia Inhabitata, fra i quali probabilmente rientrava anche il primo nucleo di Custonaci.

In un secondo momento, il territorio fu suddiviso in feudi, che vennero affidati alle famiglie ericine più influenti. In alcuni di questi appezzamenti vennero eretti i bagli, in dialetto bagghi, cioè casali rustici con uno o due piani, costruiti intorno ad un cortile e destinati tanto all’alloggio dei braccianti, quanto alla trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli. Nonostante il sistema dei bagli avesse promosso il popolamento sparso per i campi, un primo nucleo abitativo della futura Custonaci si era sviluppato nei pressi del locale santuario dedicato a Maria Santissima, attuale patrona del paese.

Nonostante da tempo fosse presente un abitato, la zona tuttavia ha continuato ad essere parte del comune di Monte San Giuliano, da cui si è staccata solo nel 1948 quando, infine, è divenuta il primo territorio autonomo dell’agro ericino.

Patrimonio materiale

Il granaio islamico

Il granaio islamico, situato su Pizzo Monaco, è un granaio fortificato di tipo collettivo – in arabo, per influsso del berbero, definito agādīr – che probabilmente risale all’XI secolo.

La costruzione di pianta rettangolare, che è realizzata da muri a secco fatti di conci di pietra assemblati senza alcun legante e pavimentazione in terra battuta, è ripartita al proprio interno in una cinquantina di celle quadrangolari di piccole dimensioni.

Le analogie strutturali riscontrate con edifici destinati alla conservazione di cereali, legumi ed olio d’oliva rinvenuti nella Penisola Iberica e in Nord Africa hanno fatto ipotizzare un’identica funzione anche per il complesso di Pizzo Monaco, la cui distruzione in epoca normanna ne collocherebbe l’utilizzo in piena epoca islamica.

Punta del Saraceno

Nel territorio di Custonaci si trova anche Punta del saraceno: un tratto di costa rocciosa sito lungo il versante settentrionale della riserva naturale di Monte Cofano. Il toponimo, che risulta frequentemente attestato in Sicilia, è interessante perché, nonostante sia stato coniato dai Greci per indicare alcune popolazioni siriane stanziate lungo il confine con la penisola arabica, a partire dal Medioevo è stato utilizzato per definire genericamente la umma cioè la comunità musulmana.

Il Santuario di Maria Santissima di Custonaci

Il Santuario di Maria Santissima di Custonaci è stato costruito nel ‘500 su una preesistente cappella dedicata alla Vergine Maria della Concezione.

La chiesa, che ha subito nel tempo diversi restauri, è a croce romana con tre navate divise da colonne in muratura, dipinte con effetti marmorei e su cui poggiano archi a sesto acuto in stile gotico. La facciata è caratterizzata da un rosone in tufo a vetri colorati.

La grande devozione tributata alla Madonna in area trapanese risale al ‘400. Allora infatti, stando alla tradizione, una nave francese, partita da Alessandria d’Egitto con a bordo un quadro della Madonna che allatta il bambin Gesù, sfuggì ad un naufragio grazie alle preghiere dell’equipaggio rivolte alla Vergine, che offrì un riparo alla nave proprio dinanzi Custonaci, nel sottostante Golfo di Cornino.

Il dipinto, che è poi stato attribuito alla scuola del famoso pittore siciliano Antonello da Messina e datato al XV secolo, è esposto sull’altare del principale santuario mariano di Custonaci e, oltre che in ambito locale, è venerato anche in Francia, in Spagna e a Tunisi.

Patrimonio immateriale

Le cassatelle in brodo, le busiate al pesto, l’agnello  e le spince

La tradizione culinaria custonacese vanta diverse pietanze tipiche. Tra i primi vanno menzionate le cassatelle in brodo, in dialetto cassateddri a broro: una pasta a forma di mezzaluna – preparata con farina, uova e acqua -, farcita con ricotta e cannella e cotta nel brodo. La cassatella di Custonaci si distingue dalle altre prodotte in Sicilia per non essere dolce e per il modo con cui i due dischi di impasto vengono chiusi. Questi, infatti, possono essere a coddrurone, cioè intrecciati oppure lavorati a pigghia e punci, cioè schiacciati l’uno sull’altro a mo’ di pizzico.

Altro primo piatto tipico del territorio sono le busiate condite con il pesto “alla trapanese”. Si tratta di un tipo di pasta, la cui produzione è attesta sin dal X secolo, fatta con semola di grano duro e lavorata a spirale intorno ad un oggetto. Quest’ultimo, da cui deriverebbe il nome del formato, secondo alcuni, andrebbe riconosciuto col buso, cioè il ferro da maglia usato nel trapanese per lavorare lana e cotone; secondo altri, invece, potrebbe essere identificato con il fusto dell’ampelodesmo: una pianta graminacea (in dialetto detta disa), il cui stelo resistente e flessibile era impiegato in passato dagli agricoltori per legare i covoni. Secondo altri ancora, infine, andrebbe associato con una sottile canna, in arabo detta būṣ, usata per attorcigliare la pasta lunga.

Il pesto “alla trapanese”, invece, è una salsa preparata a crudo con mandorle, pomodori, aglio e basilico. Nonostante il condimento sia tipicamente siciliano, alcuni fra gli ingredienti, come le mandorle e l’aglio, rimandano alla cucina araba.

Altri piatti rinomati sono il capretto e l’agnello arrostiti con alloro e rosmarino o cotti nella salsa di pomodoro. La carne di agnello, oltre ad essere la più apprezzata nella cucina arabo-musulmana, è anche l’ingrediente principale di numerose ricette, quali ad esempio il lamb madfūn, agnello avvolto in un foglio di alluminio e cotto in mezzo alla sabbia, o lo shish kebāb, spiedini di agnello aromatizzati con varie spezie.

Per quanto riguarda i dolci, Custonaci è famosa per le spince: ciambelle a base di farina, latte e patate, fritte in olio d’oliva. Il termine siciliano spincia, o meglio sfincia, che deriva dall’arabo isfanğ, a sua volta calco del latino spongia – in entrambi i casi col significato di spugna -, indica una frittella di pasta morbida, che nella cucina araba viene servita cosparsa di miele, mentre in quella custonacese è ricoperta di zucchero.

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Spincia

Lo Spincia Fest

Annualmente, nei mesi estivi, si svolge lo Spincia Fest, una sagra interamente dedicata al tipico dolce locale, presentato in diverse versioni e accompagnato da vini dolci.

La festa di Maria Santissima

La più importante festa religiosa è quella dedicata a Maria Santissima,  le cui celebrazioni hanno inizio la domenica che precede l’ultimo mercoledì di agosto nel Santuario a lei dedicato. Durante i quattro giorni di festeggiamenti si alternano momenti religiosi, spettacoli musicali ed eventi folkloristici, poi condensati nella rievocazione storica dell’arrivo via mare – nella baia di Cornino – del quadro raffigurante la Madonna con il bambin Gesù. Il dipinto, inoltre, è il protagonista assoluto dell’ultimo giorno di festa, quando viene portato in processione per le vie del paese.

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Erice

Data Di Fondazione: Secondo lo storiografo Tucidide, Erice sarebbe stata fondata da alcuni esuli troiani. In età medievale l’abitato è stato ribattezzato “Monte San Giuliano”, riacquistando il nome originario soltanto nella prima metà del ‘900.

Toponimia Storica: Eryx, Mons Julinus, Gebel – El-Hāmid. Il nome della città, durante il Medioevo, venne mutato in ğabal al-Ḥāmidcome attestato dal geografo arabo Idrisi. Il termine gebel, in arabo, è usato per indicare una altura come un colle o un monte.

Erice, conosciuto localmente come Èrici o U Munti, deriverebbe il suo nome da Eryx, figlio di Afrodite e di Bute, ucciso da Eracle durante un agone. Il sito nel 1167 venne ribattezzato “Monte San Giuliano”, denominazione mantenuta fino al 1934 quando fu ripristinato il toponimo originario. L’imperatore Federico II, con un privilegio del 1241, concesse agli Ericini il possesso di una vasta area, che contava al proprio interno numerosi casali, feudi e contrade. Cuore del comune è l’abitato sorto sull’omonimo monte, mentre diverse frazioni ne costellano il territorio, che si estende alle falde della montagna madre (Casa Santa, Pizzolungo, Roccaforte, Rigaletta, Tangi, Ballata, Napola).

Secondo le fonti letterarie, Erice fu fondata da uno sparuto gruppo di esuli troiani che, sfuggiti alla distruzione della loro patria per mano degli Achei, navigarono nel Mediterraneo centrale per poi insediarsi nell’estrema propaggine occidentale della Sicilia. Successivamente il territorio, finì sotto il controllo dei Fenici, che dalla loro potente colonia nordafricana di Cartagine lo contesero con i Greci di Siracusa, sino al 244 a.C. quando Erice venne conquistata dai Romani. Sotto questi ultimi, inoltre, l’antichissimo culto tributato ad una locale divinità protettrice della fertilità, assimilata dai Fenici con Aštarte e dai Greci con Afrodite, ricevette nuovo lustro venendo identificata con la Venere latina. Alla fine del II sec. d.C. il santuario venne abbandonato e, in conseguenza di ciò, Erice subì una graduale perdita di importanza, protrattasi per secoli. Infatti, al tempo della conquista araba della Sicilia nel IX sec. d.C. è probabile che il sito fosse già disabitato. Ciò nonostante, l’altezza e la maestosità del monte su cui un tempo sorgeva l’abitato, richiamarono l’attenzione degli Arabi, che ribattezzarono l’altura ğebel Ḥāmid (Monte di Ḥāmid). Dopo un lungo abbandono, il centro venne ripopolato solo nel XII secolo dai Normanni, che lo ribattezzarono “Monte San Giuliano” e gli diedero nuovo prestigio  con la costruzione di imponenti edifici civili e religiosi. Tuttavia tale politica di rivalutazione fu presto messa in crisi dalla potenza ascendente della vicina Trapani.

Tornando all’agro ericino, gli Arabi ne celebrarono le sorgenti sfruttandone al meglio le potenzialità con cisterne e canalizzazioni, anche se non ne hanno favorito il ripopolamento. Infatti, ancora alla metà del XII sec. Idrisi – geografo magrebino al servizio del re normanno Ruggero II – segnalava sul monte la sola presenza di una fortezza incustodita, mentre ricordava ancora l’abbondanza di acque e di terreni da semina. Il quadro cambia radicalmente alcuni decenni più tardi, quando infatti Ibn Jubayr, viaggiatore e poeta arabo-andaluso, definisce Erice “città considerevole”, attestando che nel 1185 un castello risultava già edificato sui resti dell’antico tempio di Venere.

L’interesse del mondo arabo per Erice sembra continuare anche dopo il passaggio della Sicilia sotto gli Svevi di Enrico VI e di suo figlio Federico II. Infatti, Zakariyya Al-Qazwini, cosmografo persiano del XIII secolo, nel suo libro su Le meraviglie del creato e gli aspetti miracolosi delle cose esistenti, riportando un passo di un anonimo scrittore arabo ricordava ad Erice – in arabo Ariša – l’esistenza di una statua marmorea della regina omonima, moglie del re Bani (forma abbreviata e corrotta di Trapani), signore della regione e di cui, inoltre, esisteva un idolo nel centro di Trapani. Il carattere fantastico del racconto, che ben si addice agli interessi di Al-Qazwini, sembrerebbe rimandare all’antico culto di Venere e alla statua della dea presente nel santuario ericino. Invece, per l’immagine trapanese del re Bani, in arabo “fondatore”, secondo lo storico del Medioevo E. Ashtor si sarebbe trattato di un ritratto  del condottiero cartaginese Amilcare Barca, cui si deve il potenziamento della città al tempo dello scontro con Roma, oppure di Anchise o ancora di Poseidone, entrambi mariti di Venere nella mitologia greca.

Sembra, quindi, che la rinascita dell’abitato sul monte Erice vada collocata in epoca normanna, sotto i Guglielmi, e che abbia avuto una precipua connotazione antimusulmana, divenendo una roccaforte latina e cristiana nel cuore di un territorio profondamente islamizzato.

Patrimonio materiale

Le Mura Ciclopiche

Le Mura Ciclopiche, così dette per via delle enormi dimensioni dei blocchi che le costituiscono, sono delle fortificazioni erette nel I millennio a.C. sul lato nord-est di Erice (lato naturalmente meno protetto), ed attribuite dallo storico greco Diodoro Siculo all’ingegno del mitico architetto Dedalo. Nel VI sec. a.C. le mura furono rinforzate dai Punici e, dopo alcuni rifacimenti assegnabili ai Romani, sarebbero state ricostruite dai Normanni nel XII secolo, così come lascerebbero intendere gli accenni di Al-Idrisi e di Ibn Jubayr. Le mura si sviluppano lungo un percorso di circa 700 m e si adattano al diverso rilievo del terreno (che passa dai 682 m ai 729 m s.l.m). Il tratto meglio conservato delle Mura si trova lungo il percorso di Via dell’Addolorata, fra due delle quattro porte urbiche che si aprono in essa, rispettivamente Porta Carmine e Porta Spada.

Il Castello di Venere

Il Castello di Venere è un maniero normanno del XII secolo innalzato su una rupe isolata nell’angolo sud-orientale della vetta del Monte Erice e fiancheggiato da un’area cinta da mura e contenenti due torri: le Torri del Balio. Anticamente il castello era collegato ad esse attraverso un ponte levatoio, di cui fa menzione il geografo arabo Ibn Jubayr (XII sec.).

Nel Castello dimorarono i maggiori rappresentanti dell’autorità regia, fra cui il Castellano che amministrava la giustizia penale e che annoverava tra i suoi compiti principali la direzione del carcere e la manutenzione della fortezza, nonché il bajulo che, invece, soprintendeva alla giustizia civile, oltre che al pagamento delle tasse. A quest’ultima figura, poi, sarà legato il nome dell’area circostante il castello. Infatti, si racconta che durante l’assedio posto dai Normanni di Ruggero II al monte occupato dai Musulmani, al sovrano cristiano apparve un uomo in sella ad un cavallo bianco e con un falcone sulla mano sinistra per guidarlo in battaglia. Espugnata la roccaforte islamica grazie all’intervento dell’anonimo cavaliere – che frattanto era stato identificato con Giuliano l’ospitaliere -, i Normanni decisero di dedicare al santo cacciatore tutto il monte, ribattezzandolo così Monte San Giuliano, e l’area posta intorno alla sua cima ad uno dei magistrati più eminenti della corona, il bajulo. Il castello venne edificato al di sopra dei resti del tempio di Venere Ericina, un famosissimo luogo di culto che, già nella più remota antichità, avrebbe attirato su questa vetta popolazioni da ogni parte del Mediterraneo e dove, secondo Diodoro Siculo, Erice, figlio di Bute (uno degli argonauti di Giasone) e di Afrodite, avrebbe eretto un santuario dedicato alla madre.

Nel corso del tempo il culto della Venere Ericina, a cui i marinai di passaggio erano particolarmente devoti anche grazie ai “favori” sessuali loro resi dietro il versamento di un’offerta, dalle schiave consacrate alla dea e residenti nel santuario – dette “ierodule” – crebbe insieme alla sua fama e alla sua ricchezza.

Patrimonio immateriale

Il marzapane, i mustazzoli e i bocconcini ericini

Uno degli elementi caratteristici della tradizione culinaria ericina è la pasticceria, fra i cui prodotti se ne enumerano almeno tre che per ricetta o ingredienti possono essere ricondotti alla gastronomia araba: il marzapane, i mustazzoli ericini e i bocconcini di Erice.

Secondo alcuni storici della cucina, il marzapane avrebbe origini arabe e sarebbe stato prodotto per la prima volta dai Saraceni mescolando zucchero e farina di mandorle. L’impasto così ottenuto sarebbe stato chiamato marṣabān, nome utilizzato anche per il contenitore in cui questo veniva riposto: una scatola di legno leggero, facile da trasportare. Data la sua ottima conservazione, dovuta al grande quantitativo di zucchero usato nell’impasto, gli Arabi iniziarono ad esportarlo in Italia e da qui, poi, sarebbe giunto fino in nord Europa.

A preparare il marzapane erano i farmacisti, che ne cambiarono il nome in marci panem, ovvero pane di Marco. Successivamente esso prese il nome di San Marco, in riferimento ad un dolce simile che veniva consumato durante la festa in onore del santo evangelista.

Altra prelibatezza ericina sono i mustazzoli, biscotti secchi e talmente duri che il miglior modo per gustarli è quello di intingerli in un bicchiere di Zibibbo: vino liquoroso introdotto dagli Arabi e che, secondo alcuni studiosi, trarrebbe il nome dal promontorio tunisino di Ras Zebib, mentre secondo altri, deriverebbe dalla parola araba zabīb, indicante o il moscato di Alessandria, o, più in generale, l’uva essiccata.I mustazzoli, preparati già nel Medioevo all’interno dei conventi di clausura durante le principali festività religiose, parrebbero riconducibili agli Arabi. Infatti, per la loro preparazione vengono utilizzati farina, acqua, zucchero, mandorle e spezie come la cannella e i chiodi di garofano. Questi ultimi, in particolare, pare siano stati introdotti in Occidente dagli Arabi, anche se non vi è alcuna certezza, così come per la cannella, che nella loro lingua è detta sīnāmūn, ovvero “pianta profumata della Cina”. Per quanto concerne le mandorle, varietà di frutta secca particolarmente apprezzata dal popolo musulmano, il termine lawz (mandorlo) deriverebbe tanto da lāza “cercare rifugio”, quanto dal termine loze, che indica il seme nascosto. Altra etimologia significativa si celerebbe dietro la parola zucchero. Infatti, il termine italiano sarebbe il risultato di una serie di prestiti linguistici, che dal latino saccharum risalirebbe fino al sanscrito sarkara (con il significato di sabbia o ciottoli), attraverso la mediazione del persiano šakar, quindi dell’arabo sukkar e, infine, del greco sakkharon. Tuttavia, esso conoscerà larga diffusione in Occidente solo al tempo delle Crociate, quando in Europa sarà conosciuto come “sale arabo”, in virtù del suo aspetto e del suo valore.

Infine, i bocconcini di Erice sono pasticcini dal sapore intenso e profumati al cedro ed alla mandorla. Sono preparati con il marzapane e vengono farciti, solitamente, con marmellata di cedro (dall’arabo murbà al-arz) o liquore al limone, costituito dall’argume per eccellenza, in arabo laymūn, che fu importato dagli Arabi in Occidente intorno all’anno 1000.

La tessitura dei trappiti e le ceramiche

La tessitura in Sicilia è un’arte antica, la cui origine si perde nella preistoria isolana. Tuttavia, ad essa un notevole contributo venne dato dagli Arabi, a cui pare vada attribuito il merito di aver introdotto sull’isola il baco da seta e il cotone. Durante il periodo normanno in Sicilia vennero impiantati diversi setifici, finalizzati alla produzione di manufatti pregiati destinati, in primis, ai membri della corte e, poi, all’esportazione.

Ad Erice la tessitura trova un campo di eccellenza nella produzione dei tappeti, divenuti un vero simbolo della città. Nel dialetto ericino vengono chiamati trappiti e la loro caratteristica principale è che, da sempre, sono realizzati con materiali poveri: infatti sul telaio vengono intrecciati piccoli ritagli di stoffa, che il più delle volte provengono dallo scarto di altre produzioni. Grazie alla tecnica di realizzazione e alle materie prime utilizzate, i tappeti di Erice presentano delle singolarità sia nel colore che nelle decorazioni: possono quindi essere coloratissimi o a fondo nero e, nell’ornamento, vengono prediletti i motivi geometrici (rombi, a zig-zag) a quelli figurati, come già nella tradizione tessile musulmana.

Così come la tessitura, anche la ceramica siciliana vanta una lunghissima tradizione, tuttavia essa in epoca araba ha raggiunto vette di eccellenza attraverso l’invetriatura: una tecnica inventata nel Medioevo dagli Arabi per rendere impermeabili i contenitori di terracotta, velandone i colori attraverso l’applicazione di una vernice a base di silice e piombo che, una volta cotta, vetrificava divenendo lucida e compatta. Ad Erice la forma vascolare più caratteristica è quella dei lemmi, ovvero dei contenitori in terracotta smaltati e decorati in verde smeraldo punteggiato di bianco (e viceversa) o in azzurro punteggiato di bianco (e viceversa). Nonostante non vi siano indicazioni esplicite sul perché venissero prediletti questi colori, è possibile ipotizzarne un legame con la religione musulmana. Infatti, il bianco era il colore simbolo di Mosè, campione di purezza e di pace: due virtù considerate cardinali dall’Islām; mentre il verde, che ha una connotazione positiva in quanto colore della natura rigogliosa, rappresenta la speranza e, quindi, nella tradizione islamica caratterizza l’abito dei profeti inviati dall’Altissimo per annunciare il suo verbo. Inoltre, il colore verde è citato in un versetto coranico in riferimento agli ospiti del Paradiso: «Coloro che abitano il paradiso indosseranno abiti di seta verde» (Cor. 18:31). Infine l’azzurro, essendo un colore bonario, avrebbe protetto dal male i defunti nell’aldilà.

Per quanto concerne la forma del lemmu, essa si prestava – come si presta ancora oggi – tanto alla salatura delle olive ed al conseguente ricambio della salamoia per togliere ai frutti dell’olivo il sapore amaro, quanto alla conserva dell’estratto di pomodoro (in siciliano u struttu), divenuto uno degli ingredienti principali della dieta mediterranea dopo la sua introduzione nel Vecchio Continente.

Come arrivare

In bus
I collegamenti tra le principali località siciliane ed il paese di Erice sono vari. In particolare, si segnalano le autolinee Palermo – Erice e Trapani – Erice. È possibile consultare il sito www.busradar.it

in auto
Procedere sull’autostrada A29 da Palermo a Trapani, uscita svincolo Trapani e seguire le indicazioni per SP31, a 8,9 km svoltare a destra e prendere SP3 seguendo le indicazioni stradali per Erice.

In aereo
Gli aeroporti più vicini sono: l’aeroporto “Falcone-Borsellino” per Palermo e l’aeroporto di Trapani-Birgi “Vincenzo Florio” per Trapani.

Valderice

Data di fondazione: Il comune di Valderice nasce il 15 febbraio del 1955 con la legge regionale n. 5 del 28 gennaio. Fu l’ultimo comune a rendersi autonomo da Erice: in precedenza, si erano distaccati, a partire dal 1948, Custonaci, Buseto Palizzolo e San Vito lo Capo.

Toponimia Storica: Costituito nel 1955 con il nome di Paparella-San Marco, in seguito assunse il nome attuale nel 1958.

Valderice, con la sua superficie di 53 km2 è una delle zone più attrattive di tutta la Sicilia Occidentale dal punto di vista paesaggistico. Ad esempio, nel piccolo centro di Ragosia è situata una pineta comunale che si estende su una collina e dalla quale si può ammirare il panoramico Golfo di Bonagia, affascinante borgo costiero che si affaccia sul Mar Tirreno con spiagge candide e acque cristalline.

La storia di Valderice è strettamente connessa con quella di Erice. La popolazione del monte, nel corso dei secoli, si è spostata a vivere nella fertile vallata sottostante con sempre maggior frequenza, dando vita ai primi nuclei abitativi sparpagliati nell’agro ericino.

Patrimonio materiale

Il Museo del Mare e della Mattanza

Nel comune di Valderice, presso la frazione di Bonagia, si trova il Museo del Mare e della mattanza. Il museo è ospitato all’interno di una torre di avvistamento cinquecentesca, edificata a fianco di una vecchia tonnara risalente nella forma attuale al 1626, ma ricostruita sopra i resti di una più antica, attiva già dal 1266 e distrutta nel 1624 in seguito ad un attacco pirata. L’edificio, localmente detto baglio ovvero casale, è caratterizzato da una corte centrale scoperta circondata su tutti i lati da ambienti disposti su due piani, destinati a magazzini e ad alloggi tanto per i contadini che lavoravano le terre intorno, quanto per il personale addetto alla mattanza, cioè alla pesca dei tonni. In anni recenti la funzione originaria del complesso ha suggerito di trasformare la torre in sede di un museo dedicato alla tonnara, raccontando quindi la storia dei suoi protagonisti, i tonnaroti, nei luoghi in cui essi hanno vissuto e lavorato. L’esposizione è ulteriormente arricchita, dinanzi alla torre, dalla presenza delle Musciare: barche da cui il rais della mattanza impartiva gli ordini all’equipaggio intento a ramponare i tonni. Tale felice scelta di mantenere in situ la memoria di un importante settore dell’economia isolana è stata accompagnata dall’altrettanto felice decisione di esporre nelle sale del fortilizio alcuni reperti archeologici rinvenuti nei fondali circostanti, rafforzando così il legame del polo museale con il territorio.

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Museo del Mare e della Mattanza – Musciara

Patrimonio immateriale

Il pani cunzato, la bottarga e le cassatedde cu broro

La cucina di Valderice vanta diverse pietanze che risentono dell’influenza araba. Caratterizzate da una preparazione semplice e dall’utilizzo di prodotti locali, esse nel corso degli anni hanno subito variazioni per via dell’introduzione di diversi tipi di ingredienti e usi. Nella tradizione culinaria valdericina, rinomata importanza ha il pesce per via dell’intensa attività di pesca svolta nei pressi di Bonagia, riconducibile al periodo della dominazione araba. Tra le pietanze tipiche va ricordato il pani cunzatu e le busiate al tonno.

Al tempo della dominazione islamica della Sicilia, inoltre, pare siano state introdotte nuove tecniche di conservazione tanto della carne dell’animale attraverso salagione, quanto delle sue uova attraverso essiccazione. Infatti, nel primo caso il tonno sventrato veniva riposto in grandi vasche colme di un quantitativo di sale pari al peso dello stesso pesce e quindi lasciato essiccare per due mesi circa, mentre nel secondo caso le uova dell’animale venivano pressate ed essiccate per farne bottarga, termine derivato dall’arabo buṭāriḫ.

Un’altra specialità gastronomica valdericina sono le cassatedde cu bruoro: pasta fresca a forma di mezzaluna, farcita con ricotta di pecora e tradizionalmente servita con brodo di carne (è possibile mangiarla anche senza) e accompagnata dal formaggio pecorino. Anche in questo caso, tanto gli ingredienti quanto la forma richiamano la tradizione gastronomica arabo-musulmana, in particolare il qatāyef: un dolce ripieno di panna servito dopo il tramonto nel mese del Ramadan.

Patrimonio immateriale

La mattanza, la Sagra dell’Ulivo

La mattanza, che dal 1266 è stata praticata ogni anno fra maggio e giugno in coincidenza con il passaggio dei tonni nel braccio di mare antistante le località di Bonagia e San Cusumano a nord di Trapani, ha rappresentato uno degli eventi più importanti per l’economia ed il folklore valdericini. Tuttavia, dal 2003, essa non è più attiva.

Un’altra tradizione che ogni anno ricorre a Valderice è “La Sagra dell’Ulivo”, che ha luogo nel mese di novembre. Protagonista dell’evento è l’olio extra-vergine di oliva, anche se notevole risalto è dato alle diverse varietà di ulivi e olive coltivati nel territorio, nonché agli strumenti antichi e moderni usati per la loro raccolta. L’ulivo, come già la pesca al tonno, vanta in Sicilia una lunga tradizione. Tuttavia esso, durante la dominazione araba, è stato oggetto di attente cure al fine di rendere l’albero più robusto e, quindi, più produttivo.

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Trapani

Data di fondazione: Secondo la tradizione, Trapani venne fondata prima della caduta di Troia (1184 a.C.) dagli Elimi, un popolo di origine anatolica. Tuttavia, pare più probabile che il primo nucleo della città fosse stato costituito alla fine del II millennio a.C. da genti già da tempo insediate nel territorio, i Sicani, i quali diedero vita ad un villaggio più tardi chiamato dai Greci Drepanon, ovvero “falce”, per via della forma falcata del sito.

Toponimia Storica: Drepanum; Tarābaniš; Itrābiniš; Trapanum; Tràpani.

Trapani sorge su una lingua di terra protesa nel mar Tirreno e che delimita a nord un’insenatura falciforme. Quest’ultima è all’origine del nome dato alla città dai Greci Drepanon, poi latinizzato in Drepanum dai Romani, in riferimento alla falce caduta in mare dopo l’evirazione del dio Urano da parte del figlio Krono.

Il territorio trapanese vanta una molteplicità di ambienti naturali costituiti tanto da isolotti e scogli sparsi a nordovest della centro – come rispettivamente la Colombaia ed i Porcelli -, quanto da zone lagunari poste a sudovest – come l’area delle Saline di Trapani e Paceco -.

La tradizione, che fornisce le notizie sulla storia più antica di Trapani, attribuiva la fondazione del primo nucleo abitativo agli Elimi (1184 a.C). Successivamente, il territorio trapanese andò sotto il controllo cartaginese, che dal VI sec. a.C. ne potenziò le difese per arginare l’avanzata greca nella Sicilia occidentale. Ancora più tardi la geografia dei luoghi, unita alla posizione strategica del sito ne fecero uno dei principali centri coinvolti nella Prima Guerra Punica del III sec. a.C. Durante l’epoca repubblicana e poi imperiale Trapani continuò ad essere un centro di rilievo, passando prima sotto i Vandali, dopo sotto gli Eruli, quindi sotto i Goti, per poi finire sotto controllo bizantino nel VI sec. d.C. Dopo altri trecento anni l’Isola venne conquistata dagli Arabi, che ribattezzarono Trapani Itrābiniš e più tardi ne favorirono gli scambi con le repubbliche marinare di Genova, Pisa e Amalfi, nonché con le altre città del Mediterraneo. Oltre che sul commercio, gli Arabi concentrarono i propri sforzi anche sull’agricoltura, bonificando terreni incolti e paludosi per la produzione di nuove colture mediante l’introduzione di tecniche agricole avanzate. Gli Arabi giunti in Sicilia nel IX secolo riorganizzarono non solo le campagne, ma anche i centri abitati. Infatti, per migliorarne la gestione, questi ultimi vennero divisi al loro interno in rioni, i cui confini erano indicati da colonnine inserite negli angoli degli edifici perimetrali. Nonostante la dominazione araba abbia rappresentato uno dei momenti di maggior splendore per la Sicilia intera, Trapani conoscerà il suo massimo sviluppo solo nella successiva epoca normanna, iniziata nel 1077 con la conquista da parte di Ruggero I. Gli Altavilla ed i loro eredi Svevi tennero in gran conto Trapani, che grazie al suo porto nelle successive epoche angioina e aragonese divenne il più importante centro della Sicilia occidentale. Tuttavia, a causa di carestie e pestilenze che afflissero la città fra il tardo medioevo e la prima età moderna, la città attraversò un periodo di decadenza, protrattosi fino all’arrivo dei Borbone, sotto i quali le attività produttive furono nuovamente incentivate.

Patrimonio materiale

L’impianto urbanistico, le colonne e le iscrizioni arabe

Trapani pare abbia mantenuto ancora nel Medioevo l’impianto urbanistico antico, incentrato su due strade fra di loro ortogonali, oggi ricadenti rispettivamente lungo l’asse nord/sud che dalla Scalinata di S. Domenico procede su via Badiella e lungo l’asse est/ovest che da via Mercé continua su via Cuba. Tuttavia, in quest’epoca, è probabile che ai primi due quartieri (poi denominati Casalicchio o Rione S. Pietro e Quartiere di Mezzo) ne sia stato aggiunto un terzo verso ovest (Quartiere Palazzo). Anche a Trapani, poi, i limiti rionali sarebbero stati indicati da colonne angolari di cui, secondo la tradizione locale, se ne conserverebbero in situ almeno tre: una fra via San Francesco di Paola e via Badiella, un’altra all’angolo fra vico Pesci e Piazza Lucatelli, e un’ultima fra via Cassaretto e via G. Barlotta. Oltre a queste, altre tre colonne sarebbero state rinvenute nel 1574 durante gli scavi delle fondazioni della chiesa di San Rocco, erettanell’isolato delimitato dalle attuali vie Turetta e N. Nasi. Questi elementi architettonici, realizzati in marmo forse in epoca romana imperiale, sarebbero stati riutilizzati dagli Arabi e sempre da loro decorati con iscrizioni arabiche in caratteri cufici databili al X-XI sec. La natura dei testi incisi, inoltre, ne suggerirebbe l’originaria collocazione in un luogo di culto musulmano, cioè una moschea, probabilmente costruita a Trapani nel tardo XI secolo e distrutta, forse, nel tardo XIII secolo al tempo della riorganizzazione urbanistica del Quartiere Palazzo. Oggi una di queste colonne, datata alla fine del X sec. d.C., è esposta al Museo Regionale Agostino Pepoli, ma prima si trovava presso il palazzo dei signori Emmanuele, nel quartiere Casalicchio. Sul fusto è scolpita in rilievo la frase coranica: «E non spero favore se non da Dio» (Corano XI, 90). Mentre le altre due colonne, che subito dopo il rinvenimento sarebbero passate al Convento dei Padri Francescani di Terz’Ordine, nella seconda metà del XIX secolo furono trasferite nella Biblioteca Fardelliana, dove ancora si trovano. Questi due pilastri, oltre ai collarini ornati con motivi vegetali ed alle iscrizioni cufiche datate nella seconda metà del XI secolo, presentano basi e capitelli aggiunti solo nel XVI secolo.  La colonna di sinistra reca inscritto: «Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso. Mi affido in Dio»; invece quella di destra: «Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso. La mia fiducia, in Dio».

Il Museo Pepoli e le epigrafi arabe

Oltre alla colonna inscritta, ilMuseo Pepoliconserva anche un’interessante collezione di epigrafi arabe in caratteri cufici databili tra il X e il XII secolo, ma purtroppo di provenienza ignota. Prima di essere acquisite dal museo, le iscrizioni arabiche facevano parte di due collezioni private: quella ericina del Conte Hernandeze quella trapanesedel Cavaliere Giuseppe Maria Di Ferro, raccolta all’inizio del XIX secolo.Alcune di esse, che sono state tradotte nella seconda metà dell’800 dall’arabista siciliano Michele Amari, offrono indicazioni di prima mano per ricostruire la storia trapanese nel periodo a cavallo fra la dominazione araba e quella normanna. Tra queste epigrafi merita di essere ricordata quella databile all’anno 474 dall’Egira, corrispondente al 1096 dell’era cristiana, incisa su una lastra rettangolare di marmo bianco, decorata nella parte superiore da una cornice e da un arco a ferro di cavallo, nonché da un fiore a tre petali e dal motivo a trifoglio. Grazie alla traduzione fornita dall’Amari, è stato possibile accertare che l’epigrafe era stata realizzata per la tomba di ‘Abd al-Karim Ibn Sulayman, detto l’Asceta. Infatti, il testo recita:«Nel nome di Dio misericordioso e clemente. Benedica Dio il profeta Maometto e la sua stirpe e dia loro la pace. Dì: questo è annuncio grave, da cui voi rifuggite. Allora chi sarà lontano dal fuoco e introdotto nel Paradiso, sarà salvo. La vita di quaggiù non è che merce d’inganno. Questo è il sepolcro di ‘Abd al-Karîm Ibn Sulaiman, l’Ascetico, che Dio abbia misericordia di lui; il quale è morto il giorno di sabato undici […] dell’anno 474».

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Museo Pepoli – epigrafe araba

Gli antichi rioni

Tra i rioni più antichi, ancora oggi esistenti, si ricordano il Catito e il Casalicchio, oggi compresi nel Rione S. Pietro.

Il Catito è uno dei quartieri del centro storico di Trapani. Il suo aspetto attuale caratterizzato da strade strette e piccole case con botteghe al pianterreno, anche se alterato dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale, risale al Medioevo, quando era abitato dalla locale comunità musulmana. Collocato tra le attuali via Mercè e Piazza San Francesco, fino ad una quarantina di anni fa, esso costituiva il cuore economico della città, poiché lungo le sue strade si concentravano numerose attività commerciali. Da via Mercè, inoltre, si può raggiungere piazzetta Cuba, dove si trova il laboratorio dell’ultimo caramellaio che ancora oggi produce i dolcetti secondo l’originale ricetta araba: pasta filante di zucchero aromatizzata con cannella o anice o menta o carruba e poi tagliata a pezzetti. Oltre alla tradizione artigianale, in questo quartiere anche la toponomastica mantiene vivo il ricordo dell’eredità araba. Infatti, il nome dello slargo rimanderebbe alla presenza di un edificio a cupola. Tuttavia, pare più plausibile che il termine abbia indicato l’esistenza in zona di una casa quadrata localmente definita cuba.

Il quartiere Casalicchio o San Pietro – compreso fra le vie Ammiraglio Staiti, XXX Gennaio, Mercè e Piazza Scarlatti – è il più antico della città, in quanto qui sarebbe stato fondato il primo villaggio elimo. In età medievale esso era costituito dai rioni della Giudecca – dove viveva la comunità ebraica – e delli Biscottari. Vi si trova la Chiesa di San Pietro che, secondo racconti locali non supportati da prove certe, sarebbe stata edificata nel luogo in cui predicò il principe degli Apostoli. L’edificio religioso presenta un impianto basilicale ripartito in cinque navate da 14 colonne. Il tetto, originariamente in legno, nel 1786 è stato sostituito da una volta in muratura decorata con affreschi. La facciata, rivolta ad occidente, è affiancata sul lato sinistro da una torre campanaria. La struttura, durante le diverse dominazioni, è stata più volte riedificata e oggi, al suo interno, custodisce diverse opere del pittore trapanese Andrea Carreca.

Patrimonio immateriale

Il cous cous di pesce, la pasta cu l’agghia e le busiate

Il cous cous è una pietanza maghrebina, che tuttavia ha trovato nella Sicilia occidentale una patria d’elezione. La ricetta originaria prevede granelli di semola di frumento cotti al vapore e accompagnati da tocchi di carne stufata con ortaggi, insaporita con harissa, cioè salsa a base di peperoncino rosso fresco e aglio. Nel trapanese, invece, il cous cous – cùscusu in siciliano – cioè la semola, viene cotta al vapore di una zuppa di pesce.

La pasta cu l’agghia è condita con il pesto “alla trapanese”: una salsa preparata a crudo con mandorle, pomodori, aglio e basilico. Nonostante il condimento sia tipicamente siciliano, alcuni fra gli ingredienti, come le mandorle e l’aglio, rimanderebbero alla cucina araba. Il tipo di pasta prediletto per questo condimento è la busiata.

La mattanza ed i corallai

La città di Trapani è diventata famosa, oltre che per la sua posizione geografica, anche per la pesca del tonno e del corallo e per la produzione e il commercio del sale.

La mattanza è un tipo di pesca tradizionale, oggi caduto in disuso, che si è sviluppata nelle tonnare: termine utilizzato per indicare sia l’insieme di reti adibite alla pesca del tonno, che il luogo in cui questa si pratica. La tecnica, che affonda le sue radici nella preistoria, veniva attuata per catturare i tonni rossi e pare che sia giunta in Sicilia con gli Arabi, a cui si fanno risalire tanto i canti intonati durante la pesca – le cialome – quanto alcuni termini utilizzati ancora oggi, come rais musciara, usati rispettivamente per definire il capo della tonnara e la barca dei tonnaroti. Il metodo conservativo adottato nel corso degli anni segue le stesse tecniche utilizzate nelle tonnare di Castellammare del Golfo. Una delle tonnare più importanti fu costruita a Punta Tipa, la tonnara di San Giuliano, ormai chiusa dal 1961 e della quale restano pochissimi resti. Questa è stata forse la prima tonnara della Sicilia occidentale. Durante il regno arabo, la pesca e la lavorazione del corallo si svilupparono notevolmente, anche se il suo commercialo su ampia scala è iniziato solo a partire dal ‘500. I pescatori, soprannominati corallai, partivano con le loro barche – chiamate ligudelli – nel mese di maggio per fare ritorno a settembre. La pesca veniva praticata mediante un arnese cruciforme in legno, detto ingegno, alle cui estremità erano annodati scampoli di reti. Una volta calato in mare mediante una cima, l’ingegno veniva fatto strisciare contro gli scogli del fondo su cui cresceva il corallo, per romperne i rami. Questi ultimi, spezzati ed impigliati nelle reti dell’attrezzo, venivano così portati in superficie. Secondo alcuni l’ingegno sarebbe un’invenzione araba, secondo altri invece esso andrebbe attribuito al trapanese Antonio Ciminello, il quale lo chiamò bulino. Il corallo poteva presentarsi in diversi colori: bruno-aranciato, chiamato carbonettorosa-diafano, denominato squallo (e considerato il più prezioso) ed infine nero, il più particolare. Durante il Medioevo l’abbondanza di corallo nelle acque trapanesi spinse gli orafi locali alla lavorazione di questo bizzarro materiale, che nonostante somigli ad una pietra è composto da numerosi animaletti detti polipi. Così, gli orefici trapanesi impararono le diverse tecniche di lavorazione dagli Ebrei residenti in città – ed esperti nell’uso dei metalli e delle pietre preziose -, divenendo maestri indiscussi nella creazione di opere d’arte in avorio, alabastro, ambra, perle e corallo. Tuttavia, già nell’Ottocento, l’artigianato del corallo era caduto in una profonda crisi dovuta all’eccessivo sfruttamento di tale risorsa marina e gli artigiani, fino ad allora dediti alla lavorazione esclusiva del cosiddetto “oro rosso”, furono costretti a riciclarsi nella lavorazione di altri preziosi.  Oggi la pesca del corallo è poco praticata, così come la sua lavorazione. L’ultimo artigiano rimasto a Trapani è Platimiro Fiorenza, denominato l’ultimu mastru curaddaru.

Il sale, le saline e la Riserva Naturale Orientata delle Saline di Trapani e Paceco

Il sale marino rappresenta una delle fonti di ricchezza per Trapani.  L’estrazione del sale avviene tra marzo ed ottobre in seguito all’evaporazione dell’acqua di mare convogliata in apposite vasche: evaporazione favorita dal sole e dal vento che baciano le coste trapanesi. Tuttavia, le fasi di tale operazione sono diverse e connesse tra di loro: la prima prende il nome di assummari a salina e consiste nello svuotare le vasche dall’acqua invernale attraverso delle pompe, per poi ripristinare gli argini e il fondo delle vasche; la seconda, ittari ‘n funnu a salina, non è altro che il riempimento della fridda – la vasca più vicina al mare – mediante le maree o per mezzo di pompe idrovore azionate da mulini a vento. La terza fase inizia ad aprile quando, in seguito all’evidente incremento della concentrazione salina, l’acqua raccolta nella fridda viene travasata di vasca in vasca. Prima di procedere con questa operazione, però, vengono ripulite le cauri – cioè le vasche che conterranno l’acqua ad elevata salinità – e le cassedri – cioè quelle in cui avverrà la cristallizzazione del sale. La pulizia delle prime inizia con il prosciugamento dei bacini mediante la spiriceddra – la vite d’Archimede che viene azionata a mano -. Tuttavia, se il fondo della vasca si presenta eccessivamente fangoso, lo si lascia asciugare per qualche giorno al fine di far compattare il fango con il sale di scarto, per poi rimuovere il tutto agevolmente. Le seconde, invece, vengono pulite con un semplice rastrello ed il fondo spianato con il ruzzulu – un cilindro in pietra imperniato in un asse di ferro. Fatto ciò, la vasca viene impermeabilizzata con la mammacaura: il prodotto di scarto del salinare, ottenuto dalla precipitazione di fanghiglia mista a solfati di calcio e magnesio. Infine, sul fondo della vasca viene steso uno strato di sabbia proveniente dall’Isola Grande dello Stagnone di Marsala, sabbia che grazie al suo colore attrae i raggi solari aumentando naturalmente la temperatura all’interno del bacino idrico. Da metà maggio a metà giugno viene fatto entrare il liquido salmastro nelle cassedri, in modo da avviare l’evaporazione finale. In questa fase, tra gli operatori delle saline detti salinari, il ruolo principale spetta a u curatulu – uomo di fiducia del proprietario e da questi incaricato di dirige la salina -, i maniavanu u sali – coloro che osservano il graduale incremento della salinità nell’acqua delle vasche – e i staciuneri – operai assunti per la raccolta -. Ultima fase è, appunto, la raccolta del sale: questa avviene non appena i cristalli di sale raggiungono nella vasca lo spessore di 10 cm ca. Una volta ammorbidita la crosta mediante l’utilizzo dell’acqua fatta – acqua con salinità tra i diciotto e i venti gradi -, si procede alla sua frantumazione – muddrari a salina – tramite l’utilizzo del paluneddru – pala in legno con un lungo manico – e del palu pi rumpiri – palo di ferro vincolato orizzontalmente ad un robusto manico di legno -. Originariamente per capire il grado di salinità dell’acqua si considerava la consistenza, l’odore ed il colore – che dal rosa passa al rosso, per poi diventare bianco splendente-. In seguito o si lanciava una monetina da 10 lire e si aspettava finché non affondasse o si verificava la presenza lungo i lati della vasca del rabbiù, un sottile strato di schiuma. Oggi, infine, per calcolare la salinità dell’acqua si utilizza l’aerometro di Baumè, chiamato pisasali.

La riserva naturale orientata delle Saline di Trapani e Paceco è un’area naturale protetta istituita nel 1995 e al cui interno sono presenti diverse saline di proprietà privata, in cui ancora oggi si estrae il sale dall’acqua di mare. Oltre alle vasche di evaporazione, il panorama della riserva è costellato di mulini a vento: alcuni, come si è detto, impiegati per pompare l’acqua nei bacini, altri invece per la macinatura dei cristalli di sale.  Oltre che per la produzione del sale, la posizione geografica delle saline è fondamentale per la sosta ed il ristoro di alcune specie aviarie durante la migrazione primaverile ed autunnale fra i continenti africano ed europeo. Tra queste vi sono i fenicotteri, che transitano da maggio a settembre nutrendosi di un piccolo crostaceo alofilo chiamato artemia salina. Il gamberetto si ciba di una alga rossa, la dunaliella salina, che per proteggersi, soprattutto in estate con l’aumento dei raggi ultravioletti, produce un pigmento. Quest’ultimo, grazie alla catena alimentare, passa dall’alga al crostaceo e, infine, da questo al fenicottero che così modifica il colore del proprio piumaggio da grigio a rosa.

Come arrivare

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Buseto Palizzolo

Data di fondazione: 1° agosto 1950.

Toponimia Storica: Il nome deriva dall’arabo basīṭa, ovvero “terra”, e da Palizzolo, nome della famiglia patrizia stanziatasi sul Monte San Giuliano nel XV secolo.

Buseto Palizzolo è un comune situato sulle colline a est di Trapani, in Sicilia. Nella parte superiore del territorio del comune si trova il Bosco di Scorace, conosciuto anche come d’Arcudaci: una delle più grandi aree verdi della Sicilia Occidentale, che si distingue per la presenza di cipressi, pini, lecci, eucaliptus e sugheri.

Vaghe sono le notizie relative alla storia più antica del territorio che, secondo la tradizione, fu dapprima abitato dai Sicani, quindi dagli Elimi, poi dai Romani e, successivamente, dai Bizantini.

Con l’arrivo degli Arabi, l’area della futura Buseto Palizzolo fu assegnata ad Erice, allora detta ğebel Hamīd, e suddivisa dal capo della tonnara di Trapani, il Rais, in diversi appezzamenti di terreno. Questi vennero affidati a numerosi proprietari, i quali fecero edificare nella zona dei raāl, cioè dei casali, al fine di ospitare i contadini e le loro famiglie. Una delle ipotesi più avvalorate è che il primo nucleo di Buseto si sia sviluppato a partire dall’area bonificata dagli Arabi. Tale ipotesi parrebbe suggerita anche dal toponimo Casale Busīṭ, che parrebbe rimandare all’arabo basita, cioè terra.

Oltre a popolare le campagne, gli Arabi sfruttarono i terreni incolti e le aree boschive per piantare agrumi e gelsi, nonché per produrre sommacco e cotone.

Tuttavia, con la fine dell’emirato arabo-islamico, la Sicilia venne occupata da genti nordiche che riunirono i numerosi appezzamenti in pochi latifondi, dove alla varietà di produzioni agricole sostituirono le monocolture del grano, della vite e dell’ulivo. Per meglio controllare le attività produttive, poi, all’interno dei feudi i nuovi signori eressero i bagli, in dialetto bagghi, dal termine arabo bāḥa, edifici con uno o due piani costruiti intorno ad un cortile e destinati tanto all’alloggio dei braccianti quanto alla trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli.Sotto gli Spagnoli il feudo di Busiti – così infatti era stata ribattezzata la zona – venne affidato dall’imperatore Carlo V alla famiglia Palizzolo, che già dal XV secolo si era stanziata sul Monte San Giuliano. Da loro, infine, nel 1603 il centro ha preso il nome di Buseto Palizzolo.

Patrimonio materiale

Baglio Murfi

Baglio Murfi è un esempio di edilizia rurale del XVIII secolo. Già gli Arabi utilizzavano i casali per ospitare i contadini, controllare i campi coltivati e ammassarne i prodotti.  Conservando tale funzione originale, il Baglio Murfi fu eretto a mo’ di fortezza intorno ad un cortile, all’esterno del quale trovano posto una chiesetta, un pozzo con copertura a cupola ed un abbeveratoio.

Patrimonio immateriale

I babbaluci a ghiotta, le busiate, le cassatelle, i miliddi

La tradizione gastronomica di Buseto Palizzolo vanta diverse specialità. I formaggi, prodotti soprattutto con latte di pecora, come il primo sale bianco e il primo sale al marsala, nonché i babbaluci a ghiotta, cioè le lumache cotte nel sugo di pomodoro con patate, cipolle e aglio. Il vocabolo siciliano babbaluci, come molti altri dello stesso vernacolo, racconta una curiosa storia di mescolanze linguistiche. Infatti, esso deriva dal greco boubalákion, poi localmente divenuto buvalàci. A differenza dei Bizantini e dei Siculi, gli Arabi chiamavano le lumache babūš, per via del loro aspetto che richiama da vicino le calzature utilizzate dalle donne musulmane. Quando poi gli Arabi giunsero in Sicilia, la parola indicante le pantofole venne volgarizzata in babbùccia e questa, unita al termine locale buvalàci, ha dato origine al contemporaneo babbalùci.

Altro piatto tipico sono le busiate: un tipo di pasta prodotta almeno dal X secolo con semola di grano duro e lavorata a spirale intorno ad un oggetto. Quest’ultimo, da cui deriverebbe il nome del formato, secondo alcuni, andrebbe riconosciuto col buso, il ferro da maglia usato nel trapanese per lavorare lana e cotone; secondo altri, invece, potrebbe essere identificato con il fusto dell’ampelodesmo: una pianta graminacea (in dialetto detta disa), il cui stelo resistente e flessibile era impiegato in passato dagli agricoltori per legare i covoni. Secondo altri ancora, infine, andrebbe associato con una sottile canna, in arabo detta būṣ, usata per attorcigliare la pasta lunga.

Le busiate, tipiche della Sicilia occidentale, vengono generalmente condite con il pesto “alla trapanese”: una salsa preparata a crudo con mandorle, pomodori, aglio e basilico. Nonostante il condimento sia tipicamente siciliano, alcuni fra gli ingredienti, come le mandorle e l’aglio, rimandano alla cucina araba.

Dolci tipici sono le cassatelle – in siciliano cassateddi -: ravioli preparati con un impasto di uova e farina, farciti con ricotta di pecora, zucchero e gocce di cioccolato e poi fritti. Anche in questo caso, gli ingredienti utilizzati per il loro confezionamento (tranne il cioccolato) rimandano alla tradizione culinaria araba.

miliddi sono biscotti di forma rettangolare profumati all’anice. Essi ricordano da vicino dei tipici pasticcini marocchini secchi, chiamati fekkās, il cui gusto è arricchito da mandorle, sesamo e anice.

Costituisce particolare interesse la leggenda che attribuisce l’invenzione di una delle bevande più tipiche dell’Isola, l’acqua e anice (acqua i zammù in siciliano), ad un arabo siracusano di nome Sogehas Ben ‘Alī. Questi, stando al racconto, avrebbe scoperto accidentalmente il piacevole sapore della bibita mentre disinfettava alcuni pozzi d’acqua dolce, utilizzando un decotto di semi di anice al posto delle più comuni bacche di sambuco.

Il territorio di Buseto Palizzolo eccelle nella produzione di agrumi e olio extra vergine di oliva. I primi vennero importati in Sicilia dagli Arabi nel X sec. e qui adattati alle condizioni locali tramite nuove tecniche di coltivazione e di irrigazione.

L’ulivo, che invece era già conosciuto da secoli, sotto gli Arabi ha ricevuto nuove e più attente cure, come attestano i tanti ulivi saraceni disseminati per le campagne isolane. Infatti, l’olio di oliva era, ed ancora oggi è, considerato dagli Arabi una sostanza pregiata sia per il suo uso alimentare che per quello terapeutico. A testimonianza di ciò, è menzionato diverse volte nel Corano poiché bene donato da Dio. L’olio – in arabo al-zayt – è detto zayt al-unfāq, dal greco onfakion se estratto dalle olive acerbe, mentre è indicato come zayt al-zaytūn se ottenuto dalle olive mature. L’olio d’oliva veniva impiegato anche nella cosmetica per la preparazione di saponi e preparati emollienti.

La Sagra della Busiata, la Mostra-Mercato sull’artigianato e la Festa del Grano.

Diversi sono gli eventi organizzati dal comune per promuovere le tradizioni popolari e culinarie e che hanno luogo tra i mesi di giugno e luglio.

La Sagra della Busiata è un evento enogastronomico, durante il quale è possibile degustare la tipica pasta che le massaie e i ristoratori servono condita con pesto “alla trapanese”, ragù di carni locali e funghi raccolti nel Bosco di Scorace, arricchito dalla presenza di vini siciliani e da spettacoli dal vivo.

La Mostra Mercato sull’artigianato è una fiera incentrata sui mestieri antichi e volta alla valorizzazione del territorio e delle tradizioni artigiane dell’area.

La Festa del Grano che si tiene a Tangi, una frazione del comune di Buseto Palizzolo, è l’occasione per celebrare i diversi momenti della raccolta del cereale. Vengono mostrate tutte le sue fasi: dalla mietitura con la falce, allo spianamento del terreno, al trasporto delle spighe, dalla trebbiatura con l’aiuto di muli e cavalli incoraggiati da canti popolari, al setaccio dei chicchi, alla loro conservazione nei sacchi. Inoltre, è possibile assistere a spettacoli, ascoltare poesie in dialetto e degustare piatti tipici della tradizione contadina come la ghiotta di babbaluci, il pane cunzatu e i miliddi.

Come arrivare

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I collegamenti tra le principali località siciliane ed il paese di Buseto Palizzolo sono vari. In particolare, si segnalano le autolinee Palermo – Buseto Palizzolo e Trapani – Buseto Palizzolo. È possibile consultare il sito www.busradar.it

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Calatafimi Segesta

Data Di Fondazione: La data della fondazione del comune di Calatafimi-Segesta non è conosciuta, ma da diversi documenti risulta che l’attuale sito archeologico di Segesta sul Monte Barbaro fosse già abitato nel IX a.C.

Toponimia Storica: Qal‘at-Fīmī; La rocca di Eufemio; Kalatafimi; Calataphimi; Calathafimi; Calatafimi; Fīmī; Fimìa; Bagni di Segesta.

Calatafimi Segesta è un comune nella provincia di Trapani in Sicilia. Si trova alla destra idrografica del Fiume caldo, tra le colline dell’agro segestano e confina a settentrione con il territorio di Castellammare del Golfo (TP). Il nome originario del paese è Calatafimi ma, dopo una legge regionale del 1997, ha assunto la denominazione di Calatafimi-Segesta.

Secondo gli storici, nell’antichità furono gli Elimi a popolare il territorio di Segesta, sul quale intorno al Mille d.C. sorsero quattro insediamenti definiti le quattro “Segeste medievali”: Calathamet – nei pressi delle Terme Segestane (nell’attuale territorio di Castellammare del Golfo) -, Calatabarbaro – sull’acropoli nord di Segesta – in cima al monte Barbaro -, Calatagabuni (ad est di questo) e infine Calatafimi. Dei quattro, quest’ultimo è l’unico ad essere ancora presente.

La città conobbe un primo periodo di sviluppo tra l’827 d.C. e il 1061 d.C., divenendo uno dei più importanti centri arabo-islamici della Sicilia Occidentale. Durante la dominazione araba, inoltre, la collina nei pressi di Calatafimi venne soprannominata Qal’at-FīmīCastello di Eufemio, da cui deriva l’attuale nome della città. Quest’ultima poi, a partire dal XII secolo, divenne uno dei centri strategici per la difesa del circondario.
Il geografo arabo Idrisi definiva Calatafimi ḥisn, ovvero “castello”, dotato anche di un borgo popolato. Per quanto concerne l’antica Segesta, le fonti scritte sono abbastanza avare, limitandosi a riportare il solo nome arabo della località, divenuto nel Medioevo Calatabarbaro, “la fortezza del berbero”.

Patrimonio materiale

Il Castello

La città di Calatafimi deve il proprio nome al suo castello, il Castello di Eufemio, in arabo Qal‘at Fīmī Castello di Phimes, i cui resti visibili però non risalgono a prima del XIII secolo. Secondo alcuni, la denominazione del maniero farebbe riferimento ad Eufemio da Messina, generale bizantino che dopo essersi ribellato all’imperatore di Costantinopoli si sarebbe rifugiato in Africa del Nord, presso l’emiro di Qayrawān Ziyādat Allāh I. Questi, in cambio di protezione e di futuri tributi, avrebbe ottenuto da Eufemio indicazioni tanto strategiche da permettergli di conquistare la Sicilia. Così, appena un anno dopo, nell’827 la flotta araba, sotto la guida del giurista Asad Ibn al-Furāt, sarebbe sbarcata a Capo Granitola nei pressi di Mazara (TP). Tuttavia, una volta intrapresa l’invasione dell’Isola, l’emiro della dinastia aghlabita sarebbe venuto meno alle promesse fatte, costringendo Eufemio a lasciare le truppe arabe e a cercare asilo presso i vecchi compagni d’armi, che però nell’828 d.C. lo avrebbero assassinato come traditore sotto le mura di Castrogiovanni, l’attuale Enna.

Secondo altri, il maniero noto anche come Castello di Phimes, potrebbe aver preso il nome da un proprietario terriero dell’agro segestano citato da Cicerone.

Anche per quanto concerne la costruzione del castello non vi è certezza. Infatti, secondo alcuni studiosi, la struttura potrebbe essere stata realizzata al di sopra di una preesistente fortezza araba.

I resti presenti oggi costituiscono un tipico esempio di architettura normanno-sveva, realizzato a scopo difensivo. Il castello di Calatafimi, infatti, insieme a quello di Calatabarbaro, di Alcamo e di Inici, rappresentava un elemento chiave per la protezione del territorio. Il Castello di Calatafimi, era circondato da mura su tre lati oltre che per scopo difensivo anche per terrazzare l’area accidentata del fortilizio. Inoltre il maniero che presenta pianta irregolare con una corte centrale attorno alla quale erano distribuiti i vari ambienti lungo il perimetro esterno era protetto da tre torri quadrate: di queste, due si conservano ancora rispettivamente nell’angolo nord-est e nell’angolo sud-est (a presidio dell’ingresso). Della terza torre, invece, non è rimasta traccia sul terreno, anche se il suo ricordo si è mantenuto  nel gonfalone del Comune.  Nel XIII secolo, poi, l’edificio è stato utilizzato dalle truppe di Federico II nella lotta contro i Musulmani stanziati sulle montagne della Sicilia occidentale. L’edificio, poi, è stato impiegato come presidio militare e prigione fino al 1881, quando infine è andato in disuso venendo trasformato in una cava di pietra.

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Resti del Castello di Eufemio

Il Castello di Calatagabuni

Sul Poggio Fegotto, sito 6 km ca. ad est di Segesta, in seguito ad una ricognizione sono stati individuati i resti di alcune strutture in gran parte interrate. La datazione dei reperti visibili sulla superficie del terreno ha suggerito di identificare il luogo con il Castello di Calataxibuni, o Calatagabuni: una delle quattro fortezze poste a guardia del territorio segestano durante il Medioevo. Tuttavia, a dispetto del toponimo arabo e sulla base delle evidenze monumentali, gli studiosi hanno proposto di riconoscere a Calatagabuni un piccolo abitato naturalmente fortificato, piuttosto che un vero e proprio castello, in vita fra il XIV ed il XV secolo.

La Chiesa Madre di San Silvestro Papa

È ipotesi accreditata che la Chiesa Madre di San Silvestro Papa, intitolata al più antico patrono di Calatafimi, sia stata fondata nel 1246 grazie ad un’incisione presente su una pietra posta all’angolo del campanile, che ne riporta la data di edificazione: “A.D. MCCXLVI”. Secondo la tradizione San Silvestro Papa avrebbe protetto la cittadina dalle incursioni musulmane durante il periodo medievale. L’edificio di culto, la cui pianta è divisa in tre navate, presenta muri portanti realizzati in pietra intonacata e tetto a falde. La chiesa, oltre che centro del culto della locale comunità cristiana, è stato anche il luogo delle grandi assemblee cittadine, come quella che nel 1655 portò all’elezione a patrona di Calatafimi di Maria Santissima di Giubino per proteggere i raccolti dei campi minacciati dall’invasione delle cavallette.

I mulini

Nella parte nord-occidentale della Sicilia si trovano i resti di diversi sistemi per il sollevamento, la raccolta e l’adduzione dell’acqua, nonché di mulini che ne sfruttavano lo scorrimento. Il maggior numero di essi è stato segnalato nei pressi di Calatafimi, lungo il corso del torrente Gaggera, affluente del più importante fiume S. Bartolomeo.

Lo studio del territorio ha permesso di identificare delle tracce che ricondurrebbero i resti alle opere idrauliche realizzate dagli Arabi. I mulini venivano costruiti in un punto a valle della presa di derivazione del fiume, le cui acque erano canalizzate in dotti scavati nel terreno, rifiniti con pietrame e terra rossa e, infine, impermeabilizzati con calce e cenere. Questi canali, realizzati in leggera pendenza, convogliavano l’acqua in un recipiente di accumulo, avente la forma di un cono rovesciato. Da qui l’acqua veniva riversata in una caditoia così da precipitare per alcuni metri, acquistando una velocità tale da imprimere movimento ad una ruota a pale orizzontale posta più in basso.

Il tipo di mulino più utilizzato dagli Arabi fu quello a ruota orizzontale, impiegato principalmente nelle aree collinari per lo sfruttamento di modeste risorse idriche. Originario della Persia e del Medio Oriente, arrivò nei territori mediterranei con la conquista araba.

Il Sito Archeologico di Segesta

Nel sito archeologico di Segesta è possibile trovare diverse strutture e resti che testimoniano un’occupazione della sommità del Monte Barbaro da parte di un gruppo di fede islamica nel XII secolo, durante la dominazione normanna della Sicilia. In particolare, gli scavi effettuati negli anni ’90 hanno permesso di scoprire i resti di un villaggio musulmano composto da ambienti di forma rettangolare, dotati di uno o due piani e realizzati con elementi architettonici spesso di reimpiego, impostati al di sopra di strutture precedenti (probabilmente di epoca tardo-romana).

Oltre alle abitazioni, il villaggio musulmano ha restituito gli avanzi di una moschea, datata anch’essa al XII secolo. La struttura, di forma rettangolare e divisa internamente in due navate da tre file di colonne indiziate dalle loro basi, è stata realizzata con blocchetti di pietra lungo i muri perimetrali e pavimentata lisciando il banco naturale di roccia, che in fase d’uso probabilmente era ricoperto con stuoie o tappeti. L’edificio doveva essere dotato di almeno un ingresso sul lato orientale, dove sono stati scoperti due gradini, ed era coperto da una travatura lignea a doppio spiovente, foderata esternamente con tegole curve in terracotta. L’identificazione dell’edificio con una moschea è stata confermata dal rinvenimento, lungo il lato meridionale, di una nicchia semicircolare disposta seguendo l’orientamento rituale della preghiera islamica (qibla) verso La Mecca ed in cui, quindi, va riconosciuto un miḥrāb. La localizzazione dell’edificio, distrutto al tempo dell’erezione nell’area di un castello da parte di signori cristiani, suggerirebbe un suo uso come moschea congregazionale o “moschea del venerdì”: giorno stabilito per la riunione di tutti i maschi adulti di una comunità musulmana. Oggi, come in passato, il fine di questa riunione, oltre che la preghiera, è il confronto politico e, in generale, la discussione di problematiche inerenti la collettività.  Ad oggi la moschea di Segesta rappresenta l’unico edificio cultuale di epoca arabo-islamica, presente in Sicilia. Oltre al villaggio ed alla moschea, gli scavi eseguiti tra il perimetro esterno della gradinata alta del teatro antico e le mura occidentali del castello, hanno riportato alla luce una porzione del cimitero di rito musulmano, caratterizzato da sepolture entro fosse terragne coperte con lastre di calcare. I cadaveri erano deposti su un fianco e con il volto ruotato verso la Mecca.

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Parco Archeologico di Segesta – resti della moschea

Patrimonio immateriale

Il cucciddato, i cappidduzzi, i bastarduna

La tradizione gastronomica di Calatafimi Segesta vanta diversi piatti tipici. Il cucciddato è un pane a forma di corona intagliata, prodotto con farina di grano duro, olio d’oliva, lievito naturale e sale. La sua produzione è attestata dal XVII secolo e, generalmente, viene consumato il giorno dei festeggiamenti in onore del S.S. Crocifisso, patrono di Calatafimi dal 1657 insieme a Maria Santissima di Giubino.

cappidduzzi sono dolci a forma di ravioli, farciti con ricotta di pecora, pezzetti di cioccolato e cannella, fritti e cosparsi di zucchero e cannella in polvere. Nonostante vengano considerati dolci di produzione relativamente recente a Calatafimi, gli ingredienti usati per il loro confezionamento (tranne il cioccolato) parrebbero rimandarli alla tradizione culinaria araba.

Il fico d’India, denominato a Calatafimi con il termine bastarduna è legato ad una antica leggenda, secondo la quale Dio avrebbe conferito alla pianta proprietà benefiche e, pertanto, avrebbe assunto il nome di frutto della salute. Pare che il decotto dei fiori di fico d’India sia indicato per combattere la tosse e che abbia effetti positivi anche contro le coliche renali, il colesterolo e l’ipoglicemia. Dagli Arabi maghrebini è chiamato karmūssil fico dei cristiani.

 

La Sagra della Cassatella e i Sapori di Grani Antichi

Numerose sono le sagre e le fiere che hanno luogo, in diversi periodi dell’anno, a Calatafimi-Segesta: la Sagra della Cassatella, dedicata ai dolci localmente chiamati cappidduzzi; la fiera enogastronomica i Sapori di Grani Antichi, che si è svolta per la prima volta nell’estate del 2022 ed è incentrata soprattutto sugli impasti prodotti con varietà tradizionali di granaglie caratterizzate da una bassa resa quantitativa, ma da un’eccellente qualità.

La festa di San Giuseppe e del Santissimo Crocifisso

Durante la festa di San Giuseppe, il ceto dei Borgesi di San Giuseppe, istituito al fine di accrescere la devozione nei riguardi del Santo e di emularne le virtù, offre i cucciddati, biscotti di mandorle benedetti e imbandisce di pani l’altare della Chiesa del Purgatorio. L’altare così allestito viene messo in mostra il 19 marzo e la sera la statua del Santo viene portata in processione dai fedeli.

La festa del Santissimo Crocifisso, detta anche “Festa dell’abbondanza”, ha luogo ogni 5 o 7 anni, nei giorni che vanno dal 1º al 3 maggio. Tradizionalmente, secondo l’etnologo palermitano Giuseppe Pitrè, la festa si svolgeva ogni qualvolta ci fossero abbastanza risorse per sostenerla, ogni dieci anni prima, ogni cinque anni a partire dal 1800. Per l’occasione diversi ceti (come quello della Maestranza, dei Borgesi, dei Massari, dei Cavallari, dei Mugnai, degli Ortolani, dei Caprai e Pecorai, dei Macellai) hanno l’obbligo di offrire al patrono dolciumi, frutta secca e cucciddati, che poi, durante la festività, verranno distribuiti ai partecipanti.

Come arrivare

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I collegamenti tra le principali località siciliane ed il paese di Calatafimi-Segesta sono vari. In particolare, si segnalano le autolinee Trapani-Calatafimi Segesta e Palermo-Segesta. È possibile consultare il sito www.tarantolacuffaro.it

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Procedere sull’autostrada A29 da Palermo a Trapani, uscita svincolo Segesta e continuare per Calatafimi-Segesta seguendo le indicazioni stradali che trovate superando il parco archeologico di Segesta. Proseguite per 2 km e all’incrocio girate a destra, dopo 5 km sarete giunti a destinazione.

In aereo
Gli aeroporti più vicini sono: l’aeroporto “Falcone-Borsellino” per Palermo e l’aeroporto di Trapani-Birgi “Vincenzo Florio” per Trapani.

Vita

Data di fondazione: il centro abitato è stato fondato il 17 aprile 1606 da Vito Sicomo.

Toponimia Storica: Si ipotizza che il nome del comune sia di origine araba e che faccia riferimento ad un antico centro in Algeria chiamato, appunto, Vita.

Il comune di Vita si estende alle falde del Monte Baronia nella provincia di Trapani. A pochi chilometri dal centro abitato, sulla cima del monte, vi è il Bosco di Baronia, il cui complesso è costituito prevalentemente da pini marittimi. Inoltre, la sua posizione geografica permette di ammirare diversi panorami, come quello offerto dal golfo di Castellammare o, anche, dal tempio di Segesta.

Nell’antichità la zona dovrebbe essere stata popolata dagli Elimi, come sembrerebbe indicare la presenza non lontano del sito archeologico di Segesta.

Tuttavia secoli dopo, durante il regno di Filippo III di Spagna, il calatafimese Vito Sicomo acquistò dai Conti di Modica, allora proprietari della zona, i diritti sul Feudo di Cartipoli, divenendone quindi barone nel 1605. Il 17 aprile 1606, poi, ottenuto direttamente dal re lo jus populandi fondò sulle proprie terre un nuovo paese, a cui diede il nome di Vita.

Patrimonio materiale

All’interno del complesso boschivo di Monte Baronia, che raggiunge la quota di 630 m sul livello del mare, sono stati rinvenuti i nivieri: antiche strutture di pietra di forma troncoconica, che durante l’inverno venivano riempite di neve e poi sigillate con una barriera isolante costituita da paglia e terra. L’utilizzo di questi apprestamenti, che mantenevano la neve fino alla primavera inoltrata, potrebbe essere stato introdotto nella Sicilia occidentale dagli Arabi che, così, avrebbero potuto disporre di un refrigerante naturale anche all’arrivo del primo caldo. Probabilmente questi apprestamenti tecnologici sono alla base della produzione del sorbetto in Sicilia, denominato sherbet.

Patrimonio immateriale

Lo sherbet, lu cucciddatu, la vastedda

Durante la dominazione araba, è stato introdotto sull’Isola lo sherbet, un dessert ottenuto con la neve o con il ghiaccio tritato, aromatizzato con i succhi estratti dalla frutta fresca o con il latte. La ricetta veniva infine addolcita con la cannella o con lo zucchero estratto dalla canna persiana, anch’essa importata in Sicilia dagli Arabi al tempo della loro dominazione sull’Isola. La parola italiana sorbetto deriva dal turco şerbet – sorbire – che, a sua volta, deriva dall’arabo šarāb, ovvero bevanda fresca.

Oggi, questa tecnica viene chiamata nel dialetto siciliano rattata, cioè grattata, in quanto prodotta mescolando ad un succo di frutta il ghiaccio grattato al momento.

Il tipico pane vitese è noto come lu cucciddatu, o anche come pani di la carrozza ed è un pane dall’impasto salato, la cui forma richiama quella di una piccola ciambella. Per prepararlo vengono utilizzati ingredienti semplici come la farina di grano duro, l’acqua e il sale. Una volta terminata la lievitazione, sull’orlo esterno della ciambella vengono effettuati diversi tagli, che ricordano il solco prodotto dall’aratro sul terreno. Infine, viene cotto nei forni dove, talvolta, insieme alla legna, vengono bruciati anche i gusci delle mandorle per esaltarne il sapore.

Altro prodotto tipico vitese è la vastedda: un formaggio a pasta filata e a crosta liscia, fatto con il latte di pecora – che gli conferisce un caratteristico colore avorio – e lavorato in forme basse e schiacciate. Il nome vastedda viene dal termine dialettale vasta, cioè guasta, per via della rilavorazione in acqua bollente dei pecorini andati a male a causa delle alte temperature estive.

La festa della Madonna di Tagliavia

Ogni anno, pochi giorni dopo la Pasqua e durante il giorno dell’Ascensione, la popolazione vitese celebra la Madonna di Tagliavia. La festa religiosa è caratterizzata da carri che sfilano per le vie del paese, accompagnati da canti popolari e che rappresentano i diversi ceti sociali: borgesi (proprietari terrieri), massari (coltivatori di piccoli lotti agricoli), carrettieri, mulicedda (deputati della festa) e viticultori. Durante il corteo questi gruppi distribuisco ai concittadini vino, olive e cucciddati. Il carro più importante è la carrozza maestosa, un omaggio dei massari alla Madonna di Tagliavia.

Come arrivare

In bus
I collegamenti tra le principali località siciliane ed il paese di Vita sono vari. In particolare, si segnalano le autolinee Trapani-Vita e Palermo-Vita. È possibile consultare il sito www.tarantolacuffaro.it

in auto
Procedere sull’autostrada A29 da Palermo a Trapani, uscita Salemi e imboccare SS188, seguendo le indicazioni per Vita.

In aereo
Gli aeroporti più vicini sono: l’aeroporto “Falcone-Borsellino” per Palermo e l’aeroporto di Trapani-Birgi “Vincenzo Florio” per Trapani.

Marsala

Data di fondazione: La fondazione del Comune di Marsala risale al 17 marzo 1861.

Toponimia storica: Marsāt-‘Alī (‘’porto di Alì’’); Marsala; Marsalia; Marsaria; Petrus de Marsaria.

La collocazione di Marsala sul più occidentale dei promontori di Sicilia, Capo Boeo, lambito dal Mar Tirreno a nord e dal Canale di Sicilia a sud, ha fatto guadagnare al paese il nome di città tra due mari. Tale caratteristica geografica ha regalato al centro due litorali: quello meridionale è caratterizzato da una costa bassa e sabbiosa solcata dal corso del fiume Sossio; mentre quello settentrionale alterna tratti rocciosi ad aree lagunari, come lo Stagnone. Quest’ultimo, che dal 1984 è una riserva naturale regionale costituita dall’Isola Grande che la separa dal mare aperto e dalle isolette di Mozia, Santa Maria e Schola poste al centro, ospita un insieme flori-faunistico unico.

La storia più antica di Marsala è strettamente legata con quella della vicina isola di Mozia, sulla quale nell’VIII secolo a.C. i Fenici fondarono il loro primo stanziamento siciliano, poi distrutto nel 397 a.C. dal tiranno greco siracusano Dionigi il Vecchio. All’indomani della presa di Mozia, i Fenici sopravvissuti si rifugiarono su un promontorio non lontano, Capo Boeo, dando così vita al centro fortificato di Lilýbaion, ovvero la città che guarda la Libia. Nel 241 a.C., in seguito alla fine della Prima Guerra Punica, i Cartaginesi consegnarono l’inespugnata roccaforte lilibetana ai vincitori Romani, che ne fecero la sede del pretore incaricato di governare la Provincia Sicilia. L’importanza politica e commerciale assunta dalla città fu seguita dalla costruzione di edifici pubblici e privati talmente sontuosi da farla definire da Cicerone splendidissima urbs. Lilibeo continuò a prosperare durante l’epoca imperiale romana fin quando, a partire dalla metà del V sec. d.C., fu presa prima dai Vandali, poi dagli Eruli, quindi dai Goti ed infine nel VI sec. d.C. riconquistata dai Bizantini. Nell’ IX secolo, dopo l’arrivo degli Arabi in Sicilia, il nome della città fu cambiato da Lilybaeum in Marsāt-‘Alī, ovveroporto di Alì, e, poi, in MarsāAllāh, ovvero porto di Dio. Questo nome, con i dovuti adattamenti linguistici, ha attraversato i secoli conservandosi nell’attuale Marsala.

Patrimonio materiale

Il Polo Museale di Baglio Anselmi

Baglio Anselmi, dapprima utilizzato come stabilimento vinicolo, è stato trasformato in polo museale nel 1986 ed ospita al suo interno i resti di tre relitti di notevole importanza: il primo, scoperto nel 1971 a largo di Punta Scario presso l’Isola Lunga (all’esterno dello Stagnone di Marsala), è stato scavato sistematicamente a partire dal 1973 dall’archeologa anglo-cipriota Honor Frost ed è stato identificato con una nave da guerra del III sec. a.C., probabilmente punica. In questa stessa sala, inoltre, è esposta una parte del carico di un relitto di epoca normanna, costituito da alcune piccole anfore in terracotta ed una brocca in rame con iscrizione araba, scoperte in mare nel 1983 davanti alla località Bambina di Marsala. Nella sala contigua è ospitato dal 2019 il terzo relitto, individuato nel 1999 davanti la spiaggia di Marausa (TP) e poi scavato fra il 2009 ed il 2011. Le indagini hanno permesso di recuperare numerose anfore in terracotta, insieme ad una grande porzione dello scafo che, pertanto, è stato attribuito ad una nave commerciale del IV sec. d.C. destinata al trasporto di generi alimentari dalla Tunisia.

La tonnara di San Teodoro

La tonnara di San Teodoro, o Tonnara di Marsala – edificata su un’antica fortezza romana, si trova sulla punta di Capo San Teodoro, a nord dell’imboccatura dello Stagone.

Nel sito è presente anche una torre che prende il nome da San Teodoro, (soldato romano martirizzato per la sua fede cristiana) e che già nel XV sec. faceva parte del sistema difensivo del Regno di Sicilia insieme alla torre Sibiliana e a quella del castello di Marsala.

Sempre qui, nel XVII secolo è stata edificata una nuova torre a forma di parallelepipedo, che rivolge al mare una sola facciata e che presenta una scala esterna in pietra, diretta al piano superiore.

Nonostante quest’ultima torre fosse più massiccia ma meno alta dell’altra, è stata usata per scopi militari fino al 1866, quando è stata eliminata dall’elenco delle opere militari e donata a privati.

L’intero complesso era legato alle saline ed ai relativi stabilimenti situati sia nella borgata di Birgi che sull’Isola Grande, dove sono presenti, ancora oggi, dei resti di alcuni fabbricati, del palazzo nobiliare e degli antichi magazzini della tonnara.

Patrimonio immateriale

La frutta martorana,

La frutta martoranao marzapane viene preparata dalle pasticcerie del comune in occasione della festa di Tutti i Santi e per la commemorazione dei defunti. Secondo una tradizione la frutta di martorana fu confezionata per la prima volta alla fine del XII sec. a Palermo dalle monache del Monastero fondato da Eloisa Martorana, accanto alla chiesa normanna di Santa Maria dell’Ammiraglio. Le suore, in occasione della visita invernale del Papa, volendo rendere gradevole l’aspetto del loro giardino, i cui alberi erano ancora spogli, decisero di  decorarli con frutti fatti con farina di mandorle e zucchero. Secondo un’altra tradizione, il marzapane vanterebbe origini arabe, essendo stato prodotto per la prima volta dai Saraceni, mescolando zucchero e farina di mandorle. L’impasto così ottenuto sarebbe stato chiamato marṣabān, nome utilizzato anche per il contenitore in cui questo veniva riposto: una scatola di legno leggero, facile da trasportare. Data la sua ottima conservazione, dovuta al grande quantitativo di zucchero usato nell’impasto, gli Arabi iniziarono ad esportarlo in Italia e da qui, poi, sarebbe giunto fino in nord Europa.

frutta_martorana

Frutta martorana

Altro piatto tipico marsalese è la zabbina: una ricotta di latte di pecora non ancora addensata e servita calda insieme al siero. Questa viene consumata appena pronta ed è accompagnata dalla vastedda: un pane tipico siciliano dalla forma rotonda, dalla crosta spessa e dalla mollica compatta, preparato con lievito, farina, olio e sale. La zabbina sembrerebbe essere stata introdotta in Sicilia dagli Arabi. Infatti, non solo il suo nome parrebbe derivare dall’arabo dialettale ğaban e dall’arabo classico ğubn, ma anche quelli degli strumenti usati per prepararla, come la quarara e lo zubbu: rispettivamente il pentolone di rame in cui il formaggio viene ri-cotto e il bastone di legno usato per mescolarlo.

Il cous cous è un piatto tipico del Nord Africa, che fu importato in Sicilia dagli Arabi. Viene preparato in un recipiente di terracotta, largo e basso, denominato mafaradda: al suo interno la semola viene lavorata a mano con l’aiuto dell’acqua fino ad ottenere dei grumi rotondi. Una volta pronta, viene condita con olio, sale, cipolla, pepe e cannella. Si possono anche aggiungere le mandorle tritate per dare più sapore al piatto. Successivamente, la semola viene cotta per circa 2 ore all’interno della couscoussiera, una pentola di terracotta cilindrica sul cui bordo si innesta un contenitore dotato di fondo convesso e bucherellato. Nella parte inferiore del tegame vengono messi a bollire i pesci in un brodo di verdure, il cui vapore cuoce la semola posta nella parte superiore. Pronto, il cous cous viene nuovamente riposto nella mafaradda e qui condito con la zuppa di pesce. La pietanza va servita al tavolo nel lemmu, un contenitore in terracotta smaltata in cui la semola va insaporita col brodo.

A differenza di quella siciliana, la ricetta originale del cous cous magrebino viene preparata con patate, verdure, carne di pollo o di agnello. Tuttavia, in Libia lo si accompagna con pesce e calamari, mentre in Marocco, oltre che con la carne, viene servito anche come dessert con mandorle, cannella e zucchero.

Come arrivare

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Procedere sull’autostrada A29 da Palermo a Trapani, sino all’uscita per SS115 Marsala.

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Gli aeroporti più vicini sono: l’aeroporto “Falcone-Borsellino” per Palermo e l’aeroporto di Trapani-Birgi “Vincenzo Florio” per Trapani.

Isole Egadi

Data Di Fondazione: La presenza umana a Favignana risale al Paleolitico superiore. I Normanni, nel 1081, sotto il regno di Ruggero d’Altavilla, vi costruirono possenti fortificazioni. Come già Favignana, anche Levanzo ha restituito tracce di frequentazione datate al Paleolitico. Durante la preistoria, inoltre, l’isola era unita a Favignana da un lembo di terra emersa. Per quanto riguarda Marettimo, invece, i Romani vi costruirono un presidio militare nel 241 a.C. dopo la vittoria conclusiva della Prima Guerra Punica.

Toponimia Storica: Favignana: Ğazīrat al-Rāhib; Favonius; Insula de Favonyana; Favognana; Favagnana; Favognana sive Aegusa; Favignano; Favognano; Aegusa (nome antico dell’isola in greco). Levanzo: Ğazīrat al-Yābisa; Levansus insula, quae probantia est; Phrobantia sive Probantia; Hernantia (forma sicana); Lèvanzo. Marettimo: Maresme; Ğazīrat al-Malīṭima; Maritima; Martura o Hiera; Marètimu.

Le Isole Egadi sono un arcipelago italiano nella provincia di Trapani, in Sicilia, collocate tra il basso Tirreno e il canale di Sicilia. L’arcipelago è formato da tre isole maggiori (Favignana, Levanzo e Marettimo), da due isole minori e da diversi scogli e faraglioni. Favignana, localmente conosciuta come Faugnana, è l’isola principale. Il nome con cui viene chiamata oggi deriva dal latino favonius (favonio), locuzione impiegata dagli antichi Romani per designare il vento proveniente da ovest.

Levanzo, Lévanzu per i locali, è la più piccola fra le tre isole ed è formata da rocce calcaree bianche. In greco veniva chiamata Phorbantia, per via della notevole quantità d’erba presente sulla sua superficie.

Marettimo, Marètamu  in siciliano, è la più occidentale dell’arcipelago. Nonostante in passato fosse nota in greco come Hierá Nésos, isola sacra, pare che il nome attuale derivi dal toponimo latino Maritima.

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente avvenuta nel 476 d.C., diversi furono i conquistatori che giunsero nell’arcipelago: dapprima i Vandali, poi i Goti e successivamente i Saraceni, che le sfruttarono come base, luogo di scalo e nascondiglio. Le dimensioni contenute dell’arcipelago, le poche risorse offerte dalla terra e la posizione esposta alle minacce provenienti dal mare, hanno costituito un ostacolo allo sviluppo di consistenti stanziamenti. Quindi, un’occupazione sporadica delle Egadi potrebbe averle trasformate in un luogo di isolamento, come appunto suggerirebbe il nome arabo di Favignana, Ğazīrat al-Rāhib – l’isola del monaco o l’isola del romito -, documentato dal geografo persiano Ibn Khurdādbeh nel IX secolo, ma che potrebbe rifarsi anche ad un utilizzo dell’arcipelago come luogo di esilio già consolidato nella precedente epoca bizantina.

Oltre al toponimo, Ibn Khurdādbeh menziona la castrazione degli schiavi come attività svolta a Favignana, senza però specificare l’epoca in cui tale barbarie venisse praticata. Secondo il medievista E. Asthor, tale costumanza avrebbe dovuto risalire all’epoca romana, mentre secondo altri autori è più probabile che ciò sia avvenuto negli anni dello scontro tra Arabi e Bizantini, quando un gran numero di soldati finiva schiavo al termine delle battaglie. Dopo Ibn Khurdādbeh, bisogna aspettare l’epoca normanna per avere altre notizie sui luoghi. Infatti, nelle opere del geografo arabo Idrisi e del viaggiatore arabo-andaluso Ibn Jubayr si fa riferimento all’arcipelago, non citando alcun abitato. In particolare, Idrisi ricorda Levanzo come isola priva d’acqua e di approdi, mentre Marettimo come luogo abitato dalle capre. Pertanto, una parte della critica crede che dopo le incursioni saracene, la presenza umana sulle isole fosse cessata quasi del tutto.

Patrimonio materiale

Favignana

Secondo la tradizione locale, il Castello di Santa Caterina sarebbe stato edificato da Ruggero I il Normanno sulla sommità del monte omonimo, al posto di una preesistente torre di avvistamento costruita dai Saraceni nel IX d.C., insieme ad altre due. Nonostante di queste ultime non rimanga traccia, sono altresì presenti sull’isola due ulteriori fortilizi: il primo, eretto lungo la costa vicino al porto, intitolato a S. Leonardo e poi distrutto nella seconda metà del XIX secolo per fare posto alla Palazzina Florio. Il secondo, dedicato a S. Giacomo, inglobato nel carcere negli anni ’30 del Novecento. Tuttavia, la memoria delle tre torri saracene pare si sia mantenuta nello stemma dell’Isola, sul quale esse figurano con un rapace che le sovrasta, simboleggiante i nemici.
Il Castello di S. Caterina è un maniero di pianta rettangolare dotato di un piano inferiore incassato nel banco di roccia naturale ed un primo piano costruito con blocchi di calcare. In quest’ultimo, nel passato, trovavano posto gli alloggi per la guarnigione, che erano coperti da un terrazzo usato come punto di avvistamento. Parti integranti della struttura erano anche il piccolo fossato situato lungo la facciata, il ponte levatoio che garantiva l’accesso al castello e la cappella intitolata a Santa Caterina (eponima del maniero), dove il prete teneva messa per i prigionieri. Alla fine del XV sec., poi, le difese dell’isola vennero potenziate grazie all’intervento del nuovo feudatario locale, Andrea Rizzo, che fece ristrutturare tanto il Castello di Santa Caterina quanto quello di San Giacomo. Durante il regno dei Borbone, il complesso è stato trasformato in prigione, per poi essere in parte distrutto dai ribelli nel 1860.

II Castello di San Leonardo

Il Castello di San Leonardo fu edificato dal re normanno Ruggero I d’Altavilla su una delle torri di avvistamento saracene costruita nel IX d.C. e, come già il maniero di Santa Caterina, fu dotato di una cappella. Successivamente, dopo essere stato utilizzato come magazzino per le attrezzature da pesca dai Pallavicino di Genova – allora proprietari dell’Isola -, fu ceduto dagli stessi a un certo Leonardo Bertolino, il quale lo trasformò in una abitazione. Nel 1849, poi, il castello divenne proprietà del comune di Favignana, che nel 1873 lo demolì per realizzare un’area di alaggio su cui, inoltre, venivano stese ad asciugare le reti da pesca. Nel 1876 l’area è stata venduta ad uno dei maggiori imprenditori siciliani, il palermitano Ignazio Florio, che vi ha fatto erigere l’attuale Palazzina in art nouveau, su progetto dell’architetto Damiani Almeyda.

Il Forte di San Giacomo

Il Forte di San Giacomo venne edificato per volontà dal re normanno Ruggero I d’Altavilla nel territorio in cui si ergeva la Torretta, ovvero il terzo elemento del sistema di difesa saraceno e di cui non vi è più traccia. La costruzione del castello risalirebbe agli anni fra il 1074 ed il 1101, anche se nel 1498 fu ricostruito da Andrea Rizzo, signore di Favignana durante il regno aragonese di Ferdinando II il Cattolico. Allora il Rizzo, oltre al maniero, fece fortificare il perimetro dell’Isola per proteggerla dalle continue incursioni barbaresche.

Il Forte San Giacomo è composto da un edificio quadrato fiancheggiato da strutture più piccole e con due elementi di forma triangolare posizionati sui lati apposti. Il piano terra, che era incassato nel banco naturale di roccia, veniva utilizzato come deposito per le munizioni e come alloggio per le truppe. Invece la parte fuori terra, che costituiva l’elemento principale della difesa attiva, era protetta da mura dotate di feritoie, che quindi consentivano tanto l’osservazione quanto l’uso delle armi. Oltre che dalle mura, la difesa del castello era assicurata da due ponti levatoi, utilizzati per collegare rispettivamente la parte più esterna dell’edificio con l’ingresso principale e i diversi corpi di fabbrica con una torre all’interno del complesso. Come gli altri forti isolani, anche quello di S. Giacomo era dotato di una chiesa, quest’ultima situata su un lato del maniero e intitolata al santo apostolo. Nel Seicento, per volere degli allora proprietari dell’Isola i conti Pallavicino, la cappella venne sostituita dalla Chiesa di Sant’Anna, attorno alla quale si è sviluppato il primo nucleo abitativo di Favignana. I Pallavicino, inoltre, nel 1704 hanno commissionato la ricostruzione della chiesa, ampliandone le dimensioni al fine di soddisfare le esigenze della locale comunità in crescita. Tornando al castello, al tempo dei Borboni, esso è stato trasformato in penitenziario destinato ai nemici del regime. Oggi, infine, il complesso architettonico ospita una delle più importanti case circondariali di Sicilia.

La Tonnara di Favignana

La Tonnara di Favignana, o Ex Stabilimento Florio, è stato uno stabilimento realizzato dai Pallavicino, conti di Favignana, per la trasformazione del tonno pescato nell’arcipelago delle Egadi. Nel 1841, poi, la struttura fu data in locazione agli imprenditori palermitani Florio, che la utilizzarono come base per la mattanza. L’alta redditività dell’impianto alieutico convinse presto i Florio ad acquistare l’Isola con i relativi diritti di pesca, nonché a ristrutturare lo stabilimento, aggiungendovi l’ala destinata alla conservazione del pescato. Per la costruzione dello stabilimento, che si estende su una superficie di 32 mila m², vennero utilizzati conci di “tufo di Favignana”: un tipo di pietra arenaria cavata direttamente sull’isola e caratterizzata da un colore caldo che dal bianco tende al giallo. Ai Florio va attribuita la produzione del tonno sott’olio, ottenuto tramite la bollitura della carne, poi tagliata in pezzi ed inscatolata sott’olio in latte realizzate in loco.

Dopo la grande stagione dei Florio, nel 1937 la struttura fu acquistata dalla famiglia Parodi di Genova, la quale continuò l’attività di pesca e di trasformazione del pescato fino agli anni ’70 del secolo scorso, quando la tonnara è stata chiusa ed abbandonata poiché non più competitiva sul mercato.

Nel 1991 lo stabilimento è stato acquistato dalla Regione Siciliana e trasformato in un esempio di archeologia industriale, che oggi ospita un museo con diverse sezioni:  una archeologica, con reperti recuperati nei fondali circostanti; un’altra dedicata alla famiglia Florio; una terza incentrata sulla vita della tonnara raccontata, attraverso istallazioni multimediali, da quanti vi hanno lavorato.

Levanzo

Scarse sono le notizie sulla Torre Saracena di Levanzo. L’edificio, che sorge nell’angolo sud-orientale dell’isola, apparteneva ad una struttura difensiva realizzata in conci di pietra e caratterizzata da un base quadrata su cui è impostato un alzato tronco-piramidale. A giudicare dal nome attuale, la torre dovrebbe essere stata edificata dai Saraceni a guardia dell’insenatura sottostante. La si può raggiungere seguendo il sentiero della Bardazza, uno dei diversi percorsi di trekking presenti sull’Isola.

Marettimo

Il Castello di Punta Troia venne edificato nella seconda metà del XVI secolo sulla cima del monte omonimo e su una preesistente torre di avvistamento saracena, per volontà del viceré spagnolo di Sicilia Francesco Ferdinando d’Avalos. La struttura, che presenta una pianta irregolare probabilmente imputabile ai diversi rimaneggiamenti subiti nel corso dei secoli, si erge su due piani: quello inferiore è occupato da un solo ambiente e dalla scala che conduce in alto, mentre il superiore ospita un androne collegato ad altri vani da un piccolo passaggio. Il castello venne dotato di una conserva per l’acqua dolce e di una piccola chiesa, che ha rappresentato il principale luogo di culto dell’isola fino al XIX secolo.

La cisterna, inizialmente realizzata per raccogliere l’acqua piovana, fu in un secondo momento adibita a prigione e soprannominata “la Fossa”, divenendo un terribile luogo di detenzione. Infatti, dopo che i prigionieri erano stati calati con delle funi nel serbatoio cieco e profondo ben sette metri, la botola di ispezione veniva chiusa facendo filtrare pochissima aria e luce. La crudeltà della pena era tale che nel 1844 venne abolita dal re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone. Da quel momento non solo la cisterna ma l’intero castello è andato in disuso, venendo rioccupato solo al tempo delle due guerre mondiali come punto di avvistamento. Al termine di un restauro, nel 2011, è stato ufficialmente riaperto al pubblico, ed oggi ospita un Museo delle Carceri e una sede dell’osservatorio marino Foca Monaca, che si occupa di monitorare l’Area Marina Protetta delle Egadi. Il castello è raggiungibile in due modi: via terra, tramite un sentiero sterrato realizzato dalla Forestale o via mare, con una delle guide locali.

Patrimonio immateriale

Gli spaghetti alla bottarga, il cous cous, le sarde a beccafico ed il cabbuccio alla levanzara

Tra le pietanze della cucina locale si annoverano gli spaghetti alla bottarga, una pasta lunga condita con le uova del tonno salate, pressate ed essiccate.

Il cous cous, pietanza originaria del Maghreb arabo, ha trovato nella Sicilia occidentale una patria d’elezione. La ricetta originaria prevede granelli di semola di frumento cotti al vapore e accompagnati da tocchi di carne stufata con ortaggi, insaporita con harissa, cioè salsa a base di peperoncino rosso fresco e aglio. Nel trapanese, invece, il cuscusu, viene cotto col vapore della zuppa di pesce, preparata in una pentola di terracotta smaltata e infine condita col pesce e col brodo della zuppa stessa.

Le sarde a beccafico: una pietanza povera derivata da un piatto ricco consumato dagli aristocratici siciliani nell’800. La ricetta locale prevede che i pesci vengano arrotolati intorno ad una farcia composta da pan grattato, aglio tritato, prezzemolo, uva sultanina, pinoli, sale, pepe e olio d’oliva e quindi cotti al forno.

Famosa è la pasta con le sarde di Levanzo. Secondo alcuni questa pietanza sarebbe stata preparata per la prima volta dal generale Eufemio di Messina nel IX secolo, al tempo dell’assedio musulmano di Siracusa. Secondo altri, invece, l’invenzione del piatto avvenne nei pressi di Mazara quando, all’indomani dello sbarco arabo, il cuoco di campo, dovendo sfamare un ingente esercito, mise insieme gli ingredienti disponibili in loco e creò così un piatto prelibato.

Se tutto l’arcipelago condivide le pietanze suddette, soltanto Levanzo può vantare una ricetta sua propria: il cabbuccio alla levanzara. Esso è un panino schiacciato ripieno di tonno e pomodoro.

La mattanza

La mattanza – parola che deriva dallo spagnolo matar, ovvero “uccidere”.È un tipo di pesca tradizionale, oggi quasi in disuso, che si è sviluppata nelle tonnare: termine utilizzato per indicare sia l’insieme di reti adibite alla pesca del tonno, che il luogo in cui questa si pratica. La tecnica, che affonda le sue radici nella preistoria, veniva praticata per prendere i tonni rossi e pare sia giunta in Sicilia con gli Arabi, a cui probabilmente risalgono i canti intonati durante la pesca – le cialome – ed alcuni termini utilizzati ancora oggi nell’attività piscatoria come rais musciara, usati rispettivamente per indicare il capo della tonnara e la barca da cui quest’ultimo impartisce gli ordini agli addetti alla cattura: i tonnaroti. Una volta pescato, il tonno poteva essere venduto fresco ed al trancio nei mercati, oppure conservato sotto sale. In quest’ultimo caso il pesce, dopo essere stato sventrato, veniva riposto in grandi vasche, colme di un quantitativo di sale pari al peso dello stesso esemplare e quindi lasciato essiccare per due mesi circa. Venivano conservate anche le uova dell’animale, che, pressate ed essiccate sotto sale, venivano quindi consumate come bottarga, termine derivato dall’arabo buṭāriḫ. Anticamente venivano utilizzati diversi tipi di pesca al tonno. Fra questi: la tonnara a sciabica, che consisteva nel trascinare con le imbarcazioni le reti piene di tonni verso la costa; la tonnara fissa, che prevedeva il posizionamento delle reti in un tratto di mare e l’attesa dell’arrivo dei tonni; la tonnara di corsa, messa in atto attraverso un insieme di reti organizzate a mo’ di camere poste nella zona di passaggio dei tonni. Le reti di quest’ultimo tipo potevano essere posizionate sia in mare aperto che vicino alla costa: era compito del Rais  studiare la zona e trovare un punto in cui le correnti permettessero la pesca più abbondante. Questo tipo di reti, chiamate “isola, venivano calate a inizio maggio, cioè nel periodo in cui iniziava la migrazione dei tonni. La tonnara era composta da cinque camere disposte in sequenza e divise da reti – le “porte – aperte e chiuse dai tonnaroti per garantire l’andata senza ritorno del branco di pesci: la camera grande, nella quale si assembravano i tonni; la camera Levante, utilizzata per dividere i tonni in caso di pescato abbondante; la camera Bastarda, all’interno della quale venivano contati gli esemplari; la camera Ponente, che precedeva l’ultima camera; ed infine la camera della morte. Non appena i tonni entravano in quest’ultima, i tonnaroti, ricevuta la benedizione del Rais, sollevavano il fondo della rete – detto coppu – dando sempre meno spazio ai pesci che, costretti a risalire in superficie all’interno di uno spazio via via più angusto, si colpivano reciprocamente con le code. Storditi ed in preda al panico, gli esemplari più grandi venivano poi ramponati dai pescatori e quindi issati a bordo delle barche. Una volta pescati tutti i tonni, il Rais dichiarava conclusa la pesca e, per celebrare il successo dell’impresa, tutti i tonnaroti facevano il bagno nel mare tinto di sangue. Per il buon esito della pesca erano fondamentali anche le imbarcazioni: di colore nero, dovuto alla pece usata per calafatarne gli scafi, le barche si mimetizzavano fra i pesci. La loro forma variava in base alla funzione svolta: il vasceddu o parascalmi, usato per trasportare le ancore, gettare le reti e sollevare i tonni; la musciara destinata al Rais per impartire gli ordini alla ciurma; la bastarda, un’imbarcazione polifunzionale, utilizzata tanto nel posizionamento dei galleggianti delle reti, quanto nella manutenzione della tonnara; i rimorchi varcazzi impiegati per il traino delle barche non autonome. Tali modelli, rimasti in uso fino ai primi anni Novanta, sono stati adeguati alle esigenze della contemporaneità con l’inserimento, ad esempio, del motore a scoppio.

Sebbene oggi la mattanza sia praticata in pochissimi luoghi, in seguito all’impoverimento dei mari, le tecniche più utilizzate sono la tonnara di corsa e la tonnara volante: quest’ultima consiste nel lancio delle reti nel momento in cui il pesce si trova nelle immediate vicinanze del peschereccio.

Oltre che come sinonimo di stabilimento in cui i pesci vengono trasformati e conservati, il termine tonnara è impiegato anche per indicare il luogo di pesca dei tonni. Si distinguono tonnare di andata, situate lungo la costa nordoccidentale della Sicilia – Favignana, Bonagia, Scopello, Castellammare, San Vito – per la pesca del tonno proveniente dall’Atlantico: il “tonno di andata”; e tonnare di ritorno, localizzate lungo le coste orientale e meridionale – Capo Passero, Sciacca, Capo Granitola – per la pesca del tonno diretto in Atlantico, il “tonno di ritorno”. L’ultima mattanza in Sicilia è avvenuta nella tonnara di Favignana nel 2007.

Come arrivare

Via mare
I collegamenti per raggiungere le isole partono da Marsala e Trapani. Per informazioni, è possibile consultare il sito www.traghettilines.it

Pantelleria

Data di fondazione: L’isola viene frequentata fin dal Neolitico. Risalgono alla fine dell’Eneolitico alcuni reperti archeologici ritrovati nell’area e risalenti al periodo compreso tra XXII e il XV secolo a.C.

Toponimia Storica: Bint al-Riyāḥ “figlia del vento”; Cossyra; Ğazīra – ‘’Isola’’; Qūsira; Qawsara; Saraceni insule nostre pantalarie; Pantalaria; Pantellaria; Pantillaria; Pantagia.

L’ isola di Pantelleria è estesa più di 80 km² e si trova a 110 km a sud-ovest della Sicilia e a 6 5km a nord-est della Tunisia, la cui costa è spesso visibile a occhio nudo. Nota per la sua centralità nel Mar Mediterraneo, scalo intermedio tra Africa ed Europa, nonché caposaldo per il commercio col Levante, Pantelleria si caratterizza per la singolarità del suo paesaggio, nel quale agli elementi naturali di origine vulcanica si aggiungono i manufatti creati dall’uomo: muri a secco, giardini panteschi, dammusi. La flora autoctona dell’isola è costituita dalla macchia mediterranea, uno dei principali ecosistemi caratterizzato da una formazione vegetale arbustiva costituita, tipicamente, da specie sclerofille, cioè con foglie persistenti poco ampie, coriacee e lucide. Cresce spontanea una locale varietà di cappero, che oggi rappresenta anche una delle principali coltivazioni dell’isola, insieme alla vite e all’ulivo.

Stando ai dati disponibili, il più antico stanziamento dell’isola è rappresentato dal villaggio fortificato di Mursìa: un agglomerato capannicolo dell’età del Bronzo, protetto da mura di fortificazione ciclopiche e datato tra il XXII e il XV secolo a.C. Dopo un considerevole lasso di tempo, durante il quale l’Isola è rimasta apparentemente disabitata, i Fenici vi fondarono una colonia, Cossyra, che presto entrò nell’orbita della vicina potenza cartaginese. Inoltre, venne più volte occupata dai Romani durante le guerre puniche, fino alla definitiva conquista avvenuta nel 217 a.C.

Isolata nel bel mezzo del Canale di Sicilia e di modesta importanza economica, l’Isola assunse un  rimarchevole ruolo strategico per il controllo della navigazione fra Mediterraneo orientale e occidentale. Pantelleria, già dall’epoca bizantina, viene identificata come zona di penetrazione, di scambio, di compromesso tra Sicilia e Maghreb. I viaggiatori arabi ricordano la fuga di cristiani d’Africa nell’Isola al momento della conquista islamica della Tunisia. Probabilmente già nel VII secolo,  dopo la caduta di Cartagine, una spedizione navale al comando di ʿAbd al-Malik ibn Qatan assalì Pantelleria, spianando le fortificazioni ivi costruite dai Romani. Tuttavia, a questa prima scorreria non dovette seguire un insediamento islamico a carattere stabile, mentre l’eco della strage della popolazione cristiana si sarebbe mantenuta a lungo, tanto da comparire ancora nei versi composti secoli dopo dal poeta siculo Ibn Hamdīs.

La conquista definitiva di Pantelleria da parte degli Arabi dovette avvenire negli stessi anni in cui iniziava la penetrazione in Sicilia. Ibn Khaldūn ricorda una vittoriosa spedizione contro l’isola avvenuta sotto Ziyādat Allah I e guidata da Asad ibn al-Furāt, il condottiero dello sbarco di Mazara: la distruzione o la sottomissione definitiva della superstite comunità cristiana di Pantelleria potrebbe quindi avere immediatamente preceduto o seguito lo sbarco in Sicilia dell’827. Tuttavia, ciò non comportò la presenza stabile di una comunità araba. Un periodo di abbandono di Pantelleria – anche se non necessariamente completo – si giustificherebbe bene per i decenni di guerra successivi allo sbarco di Mazara: potrebbe allora essersi affermata la paura – registrata dal geografo Al-Dimishqī – per i luoghi dell’isola deserti e frequentati solo da spiriti maligni e diabolici. Nei quattro secoli intercorsi fra la prima spedizione araba e la conquista normanna dell’Isola, Pantelleria muta completamente il suo aspetto, divenendo terra musulmana e araba, e tale rimanendo ancora per secoli. Lo prova, con immediata evidenza, la toponomastica pantesca, in gran parte araba ed esotica anche per i siciliani.

La dominazione normanna di Pantelleria non è però chiaramente documentata. La loro definitiva presa di possesso dell’isola avvenne soltanto al tempo di Ruggero II e comportò un grande spargimento di sangue. Nel 1175 Burchard di Strasburgo descrive una popolazione praticamente fuori dal controllo del re di Sicilia, dedita alla pastorizia e pronta a nascondersi nelle grotte dell’Isola in caso di sbarco nemico. In realtà, è probabile che il dominio normanno si concretizzasse in primo luogo nella riscossione della ğiziya:un’imposta gravante sui membri della locale comunità musulmana. Per secoli, almeno sino alla fine del medioevo, a Pantelleria rimarrà cristallizzata questa realtà.

La pulizia etnica efficacemente condotta da Federico II contro i Musulmani della Sicilia occidentale non toccò Pantelleria, dove la maggioranza della popolazione rimase araba e islamica. Lo status peculiare di Pantelleria venne anzi sancito nel 1221 da un articolo del trattato stipulato fra Federico II e il sovrano di Tunisi Abū Isḥāq ibn Ibrahīm ibn Abū Ḥafs. La peculiare vicenda pantesca permarrà quasi immutata fino alla fine del Medioevo. Difesa dal suo isolamento, Pantelleria manterrà così a lungo tratti arcaici, sviluppando quindi – e mantenendo fino ad oggi – una peculiare civiltà isolana.

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Veduta da uno sperone di costa

Patrimonio materiale

I Giardini ed i dammusi

Giardini di Pantelleria sono un complesso di antichi dammusi e giardini arabi situati sulla costa ovest dell’Isola. Il dammuso è un tipico esempio di architettura residenziale, inquadrabile come lascito della dominazione araba, che presenta una forma cubica e un tetto a terrazza con copertura a cupola. Tale copertura, oltre a far risalire l’aria calda verso la parte alta del vano interno, in modo da garantire un ambiente fresco durante la stagione estiva, permette di raccogliere l’acqua piovana sul tetto e, attraverso a canallata, condurla in una cisterna. Il nome dammuso potrebbe derivare dal siciliano dammusu, col significato di volta o intradosso o, ancora, dal latino domus, cioè casa. I giardini panteschi venivano edificati per proteggere le piante dai forti venti che, come ricorda anche il nome arabo dell’isola (Bint al-riyāḥ, figlia del vento), soffiano a Pantelleria in ogni stagione. Risalenti agli albori della cultura dei paesi caldo-aridi del Mediterraneo, questi edifici a pianta circolare, al cui interno è conservato, chiuso da una porta, un solo albero di agrume, rappresentano un ingegnoso sistema agronomico autosufficiente, capace di difendere la pianta dalle due principali minacce alla sua sopravvivenza: il vento, per la sua intensità e la sua frequenza, e la scarsità d’acqua che, talvolta, può trasformarsi in periodo di prolungata siccità. Uno dei pochi esemplari di giardino pantesco, in buono stato di conservazione si trova in Contrada Khamma. Il recinto, che è collocato in un anfiteatro naturale costituito da terrazze coltivate a vigneto con piante centenarie di Zibibbo, è stato completamente restaurato e nel 2008 è stato donato al FAI (Fondo Ambiente Italiano) dall’azienda vinicola siciliana Donnafugata. All’interno di esso, si trova una secolare pianta di arancio del tipo detto Portogallo (dall’arabo burtūqāl, ovvero arancia dolce): antica varietà ricca di semi, ma anche, di succo zuccherino, che si sviluppa su più tronchi occupando tutta l’area disponibile.

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Dammuso pantesco

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Lo Zibibbo

Soffermandoci ancora sui frutti, secondo alcuni autori, l’uva di tipo Zibibbo sarebbe stata introdotta a Pantelleria al tempo della dominazione araba (successivamente all’anno 835 d. C.), e trarrebbe nome dal Rās Zebīb, un promontorio dell’attuale Tunisia settentrionale. Secondo altri, e più probabilmente, il termine deriverebbe dalla parola araba zabīb, indicante un particolare vitigno – il moscato di Alessandria – o, più in generale, l’uva essiccata.

Il Lago di Venere

Il lago di Venere, situato a nord-est di Pantelleria si presenta come un vero e proprio paradiso, alimentato dalle piogge e dalle sorgenti termali che ne caratterizzano l’ambiente. Stando al mito, il nome del lago sarebbe legato all’abitudine della dea Venere di specchiarsi nelle sue acque prima di ogni incontro col dio Bacco nel punto in cui, lungo la sponda settentrionale del bacino, un tempo sorgeva un tempietto a lei dedicato e di cui gli scavi archeologici hanno riportato alla luce alcuni resti.

Bugeber

Bugeber  (Bugghiéviri) è il paesino soprastante il lago con una superba vista sul bacino idrico. Abitato fin dai tempi di Cossyra (nome con cui veniva chiamata l’isola prima dell’arrivo dei Musulmani), giunge ai giorni nostri con un nome di chiara origine araba, la cui etimologia è riconducibile ad ab  (“padre”) e Ğabir  (nome proprio di persona), “luogo del padre del concia ossa”.

Cala Gadír

Cala Gadír è una delle contrade costiere più note dell’isola: un villaggio di pescatori con un punto di alaggio per le barche, costituito da abitazioni tipiche di un borgo marinaro, disposte a semicerchio attorno ad un suggestivo porticciolo. I residenti sono circa una decina e vengono chiamati “gadirioti”. Fino agli anni ’60 la zona era ricca di buvire, cioè pozzi di acqua dolce utilizzati in passato per rifornire le navi di passaggio. Oggi il luogo è caratterizzato dalla presenza di vasche di diverse dimensioni, scavate nella roccia e colmate dalle acque termali che sgorgano in riva al mare a temperatura compresa fra i 40° ed i 50° centigradi e che, da sempre, sono ritenute salutari. Queste contengono sali minerali di provata efficacia terapeutica, ideali per la cura di artrosi e reumatismi. Inoltre, sulle pareti delle suddette vasche prolifera un’alga indicata per curare sinusiti, raffreddori e piccoli problemi alle vie respiratorie. Il toponimo italiano Gadir viene dall’arabo che, a sua volta, deriva dal vocabolo fenicio gādīr (“stagno”). Nei fondali antistanti il borgo, poi, è stato realizzato il primo itinerario archeologico subacqueo di Pantelleria. Si tratta dell’istallazione, da parte della Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana, di un sistema di telecamere che, oltre a monitorare i resti di diversi naufragi antichi, li rende fruibili al grande pubblico attraverso il sito web della Soprintendenza stessa.

Il Santuario Maria Santissima della Màrgana

Il Santuario Maria Santissima della Màrgana è la chiesa rurale più antica dell’Isola e risale al passaggio di Carlo V in Sicilia nella prima metà del XVI secolo. Il santuario è dedicato al culto della Vergine, localmente invocata come Madonna della Màrgana, epiclesi derivata dalla parola araba marġ, campo. Tuttavia, la fondazione del luogo di culto risale al 551, quando un gruppo di monaci basiliani si stanziarono in una precedente struttura di origini romane per farne un cenobio. Il vecchio edificio era scavato nella lava ed all’interno era decorato con mosaici, mentre all’esterno era contornato da mura. La struttura che si può ammirare oggi è stata edificata al di sopra del santuario precedente verso il 1700 e conserva le caratteristiche classiche della chiesa rurale del periodo con navata singola, coperta da tetto a capanna e volta a botte.

Patrimonio immateriale

I capperi panteschi, il tabulè, il merghez, le leticchie, il bacio pantesco, la cubbaita e lo Zibibbo

I capperi, dal greco kapparis, passato al latino capparis, quindi all’arabo qabār, con il loro frutto, il cucuncio, costituiscono alcuni fra gli ingredienti tipici della cucina locale. Infatti questi, insieme con patate, pomodori olive e cipolle costituiscono la cosiddetta insalata pantesca. Insalata che sembra condividere gli stessi ingredienti con la shakshuka magrebina.

Il tabulè, a differenza del cous cous, tipico del Nord Africa, è un’insalata a base di bulġūr, cioè grano spezzato, ottenuto dal grano duro germogliato, i cui chicchi vengono cotti al vapore ed essiccati per poi essere macinati.

Il merghez è una salsiccia di manzo speziata con peperoncino piccante, anch’essa di origine magrebina.

Le lenticchie  sono un ingrediente molto usato nella cucina pantesca. Infatti, svariati piatti vengono preparati con i legumi rossi coltivati in loco. Anche gli Arabi, nella loro cucina, prediligono i legumi, soprattutto le lenticchie, seguite da fave e ceci.

Il bacio pantesco è una frittella dolce con ricotta. I dolcetti sono formati da due cialde croccanti, fatte di una semplice pastella fritta in olio e quindi farcita con la ricotta, preparata con latte ovino, caprino, vaccino o misto.

La Cubbaita è una ricetta antichissima il cui nome deriva dall’arabo qubbiya, ovvero “mandorlato”.

Lo Zibibbo, prodotto con il moscato d’Alessandria, è un vino tipico locale. La parola Zibibbo ha la sua radice etimologica nella lingua araba e il suo significato è uva appassita. Le uve moscato rappresentato una delle grandi famiglie varietali presenti un po’ in tutti i paesi del Mediterraneo. In particolare, la varietà moscato d’Alessandria è, molto probabilmente, originaria dell’Egitto o comunque delle coste vicino-orientali.

tabule

Tabulè

Festa del Cappero: il fiore del Mediterraneo

Cappero: il fiore del Mediterraneo è l’evento che si tiene a Pantelleria nel mese di aprile. È una festa di sapori, colori e tradizioni pantesche con il cappero protagonista della manifestazione, degustazioni ed esposizioni di tutte le aziende produttrici dell’isola.

Come arrivare

Via mare

I collegamenti per raggiungere l’isola partono dal porto di Trapani. Per informazioni, è possibile consultare il sito www.traghetti.com

In aereo

Gli aeroporti più vicini sono l’aeroporto “Falcone-Borsellino” per Palermo e l’aeroporto di Trapani-Birgi “Vincenzo Florio” per Trapani.

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